“Orgoglio e pregiudizio”, il romanzo più famoso di Jane Austen, ha compiuto, lo scorso 28 gennaio, ben 200 anni. L’editoreThomas Egerton ne pubblicava, infatti, la prima edizione nel 1813, ma eviteremo di riportare, come hanno fatto un po’ tutti, gli eventi celebrativi che sono stati organizzati per l’occasione, scegliendo, invece, di soffermarci con più calma (e non a ridosso delle celebrazioni stesse) su alcune considerazioni e curiosità. Più o meno tutti si sono chiesti come mai un’opera di duecento anni fa sia ancora oggi così attuale e riscuota un tale successo in quasi ogni angolo del pianeta. Non tutti si sono domandati però come mai in Italia l’opera della nota autrice inglese è invece ancora piuttosto sottovalutata e considerata, da alcuni, poco più che letteratura rosa. Il fenomeno è quanto meno curioso, visto soprattutto che alcuni tra i più accreditati studiosi e critici hanno paragonato la scrittura della Austen a quella di autori ormai consacrati quali Flaubert ed Henry James, sottolineandone, in più, una dimensione “rivoluzionaria” che agli altri, invece, mancherebbe. L’Italia è comunque stata contagiata dalla “Austen-mania” generale solo negli ultimi 10 anni e solo da allora sta cominciando a riscoprire le sue opere. Il fenomeno ha preso il via una decina d’anni fa (quindici al massimo) sulla scia della splendida trasposizione filmica di “Ragione e sentimento” ad opera del regista Ang Lee. Prima di allora nessuno o quasi parlava di Jane Austen e, men che meno, ne leggeva le opere. Quando ho iniziato a farlo io, la reazione delle persone intorno a me fu, anch’essa, piuttosto curiosa. Venne fuori che molti della mia generazione non l’avevano mai neanche sentita nominare, quelli della generazione precedente (dai sessantottini ai settantasettini), invece si, ma di certo ne avevano rimossa l’esistenza (cresciuti a pane e politica per loro leggere narrativa oltre che saggistica era cosa per lo più inconcepibile). Lo strano fu scoprire che la generazione dei miei nonni (nonché dei miei genitori) aveva imparato a considerarla se non proprio alla stregua di Liala, poco ci mancava. Nel frattempo ho scoperto che la prima pubblicazione di “Orgoglio e pregiudizio” in Italia è avvenuta nel 1932 con il titolo di “Orgoglio e prevenzione” e in giro purtroppo si trovano ancora ristampe con la traduzione di quegli anni che, a mio avviso, rende il romanzo pressoché illeggibile (almeno per quelli della mia generazione). Mondadori pubblicava quella stessa insopportabile traduzione (che risentiva di tutti i limiti del suo tempo) ancora negli anni ’80, con i personaggi che (ad esclusione dei coniugi Bennet) si davano del lei. Anche i loro nomi erano stati tradotti, così l’arguta sagace e impertinente protagonista, Elisabeth Bennet (che avevamo conosciuto, nella versione inglese con il soprannome di Lizzy), era diventata Bettina. Questa traduzione è capitata in mano anche a me, ma fortunatamente all’epoca, ne avevo già letta un’altra più recente. Non disponendo, ai tempi dell’università, di grandi somme da destinare ai libri non scolastici, la mia scelta ricadde, infatti, su un’economicissima edizione Newton Compton scovata tra le bancarelle di piazza Statuto all’esorbitante prezzo di 4.000 lire. Una vera fortuna giacché, se mi fossi imbattuta nella traduzione di cui sopra, forse non mi sarei appassionata tanto all’autrice inglese, proprio come è successo ai miei nonni. Aneddoti personali a parte, gli studiosi della Austen concordano con il noto critico letterario Pietro Citati, il quale, riferendosi all’autrice di “Orgoglio e pregiudizio” ha scritto che “Non riconosciamo ancora quale sia la sua grandezza. Almeno non in Italia”. Lo stesso afferma anche Roberto Bertinetti, docente di letteratura inglese all’università di Trieste. Egli sostiene che, in effetti, chi si sofferma solo sugli eventi al centro dei romanzi della Austen “li ritiene esclusivamente capolavori in rosa, appassionanti storie d’amore a lieto fine”, ma poi specifica che, se si guarda al di la della trama, i suoi romanzi “presentano un impareggiabile ritratto della società britannica di inizio Ottocento, cui si accompagna un’orgogliosa rivendicazione dei diritti femminili”. A tal proposito Bertinetti definisce la Austen addirittura una sovversiva. In effetti, le protagoniste dei suoi romanzi si celano, solo apparentemente, silenziose e compite, dietro al rispetto delle convenzioni e delle formalità dell’epoca, mentre in realtà riportano (talvolta anche apertamente nelle loro conversazioni salottiere) le idee che la Austen molto probabilmente aveva, almeno in parte, acquisito dalla scrittrice Mary Wollstonecraft, sua contemporanea e nota per il suo “Trattato sulla “Rivendicazione dei diritti della donna”. “Sin dall’adolescenza”, secondo Bertinetti “Jane Austen individua una modalità narrativa adatta al tema prescelto: basta prendere il guscio dei libri a sfondo sentimentale messi in vendita durante l’ultima parte del XVIII secolo e riempirlo di un contenuto nuovo. Offre così libero corso ai pensieri o ai disegni di coetanee che, con la sua stessa forza e caparbietà, lottano per imporre una silenziosa rivoluzione in ambito domestico destinata a cambiare i rapporti di genere nell’Inghilterra di inizio Ottocento”. Al di là dell’involucro apparentemente rosa e volto a garantire sempre il lieto fine, quel che piace, inoltre, davvero di Jane Austen è il suo saper ritrarre vizi e virtù della società dell’epoca, attraverso la caratterizzazione di personaggi che spesso ella si sofferma a guardare attraverso la lente dell’umorismo. L’incredibile varietà di sfumature psicologiche e i rapporti sociali scandagliati con arguzia ci consegnano ritratti come, ad esempio quello di Mr Collins che, stando alla descrizione “era privo di intelligenza e …doveva la sua eccesiva umiltà alla tirannia con la quale era stato educato da suo padre, ma ormai questa umiltà era controbilanciata da una grande presunzione, propria delle persone di debole carattere che si trovano d’un tratto favorite da un’improvvisa prosperità”. O, per citare un altro esempio, la signora Ferrars che era una donna “dal portamento eretto fino all’innaturalezza e seria nell’aspetto fino all’acidità. Aveva fattezze minute, non belle e per natura inespressive, ma per fortuna la fronte aggrottata salvava il viso dalla disgrazia dell’insipidità…non era una donna loquace perché a differenza della maggior parte della gente, il numero delle sue parole era proporzionato a quello delle sue idee”.