Pochi sono i punti fermi per chi ama la grande musica. Ed è proprio questo il bello: riuscire a sorprendersi sempre, a trovare nuove emozioni e vibrazioni anche in note e ritmi già sentiti. Tra queste poche certezze una in particolare rappresenta un assioma incrollabile, specie se si parla di black music: ad ogni sound corrisponde un ambiente ben preciso, ogni genere ha cioè un suo habitat che lo distingue e rende unico. E’ così per le baracche giamaicane in cui ha visto i natali il rocksteady, è così per le sponde dei placidi fiumi degli Stati del sud sulle quali è nato e cresciuto il popolo del blues. Secondo lo stesso puntuale principio, la grande musica Soul ha potuto esplodere solo nelle immense e grigie motorcities del Nordamerica, lungo la highway da Detroit a Chicago. Non è quindi un caso se il miglior omaggio che qui da noi sia mai stato fatto al cosiddetto “Northern Soul”, sia venuto alla luce a Torino, nello scenario di fabbriche dismesse (quando non trasformate nelle sedi dei grandi eventi internazionali e delle grandi speculazioni) e di vecchi quartieri operai ora timidamente rivestiti di pretese residenziali. Stiamo parlando di “A mood so..”, gran bell’ album d’esordio della Soulful Orchestra. Fin dal primissimo ascolto e da una rapida occhiata alle foto che accompagnano il disco, il pensiero corre veloce a “ The Commitments”, al gruppo di “neri-bianchi” irlandesi che si improvvisava orchestra soul per rivendicare una passione musicale ma anche un’identità sociale, così come è stato immortalato nel film cult di Alan Parker. Qui però sotto i riflettori non sono giovani musicisti dei bassifondi alle prime armi, ma “vecchi leoni” della scena musicale indipendente italiana abituati a confrontarsi con vendite di tutto rispetto e platee di migliaia di persone. L’Orchestra si presenta infatti come un progetto “all stars” e nasce – per passione e per divertimento – all’interno di una scena vivacissima che già in tempi non sospetti ha contribuito a riportare in auge i suoni e lo stile della musica americana degli anni 50 e 60, grazie ad alcuni appuntamenti fissi in giro per i club torinesi (ormai veri e propri must) e grazie a collettivi di dj appassionati come per esempio il Soulful Torino. Così in un’unica band possiamo trovare veri big come Cato , De Angelo Parpaglione e Steve Colosimo degli Africa Unite, Naska degli Statuto, Belinski e Gege della Giuliano Palma Orchestra oltre a Enphy, Jose Loggia e ad una grandissima cantante soul quale Lady Maya. L’operazione – per lo spirito che la muove e anche in gran parte per i suoi protagonisti – rimanda a quella fondamentale esperienza che negli anni novanta fecero i Bluebeaters (proprio in questi giorni tornati sulle scene in formazione originale e affrancati dalle velleità pop di Palma). Qui però la passione e la voglia di omaggiare un genere musicale lasciano ancor più spazio ad una ricerca di suoni ed atmosfere ancora più puntuale ed efficace. Il suono e gli arrangiamenti delle grandi produzioni del passato si ritrovano, sorprendentemente fedeli, infatti in tracce come Gotta find a way, Don’t freeze me, Ocappellae in grandi classici quali I put a spell on you e Bring it on home to me. In questi e negli altri otto brani, i Soulful ci ricordano che “fare una cover” non significa solo suonarla come si deve ma soprattutto restituirgli ogni volta la sua anima originale, sia che la si riproduca fedelmente sia che la si stravolga in altre forme. Cosa non da poco in un momento in cui sembrano trovare spazio solo le Tribute Band. Questi ragazzi hanno anche un altro grande merito: riportarci alla mente che in quegli anni d’oro anche in Italia si producevano grandi brani soul e rock n’ roll. E così troviamo alcune perle che davvero rendono unico questo album: Se bruciasse la città, brano tutto soul e sentimento di Massimo Ranieri (per il quale è in fase di produzione il video), e ancora Questo mondo non mi va, omaggio a Little Tony con il cameo di Madaski e infine – davvero una felicissima riscoperta – Non rompetemi i bottoni di quel precursore che è stato Riz Samaritano. Non si può poi non ammirare il coraggio e il talento con cui Maya si confronta – uscendone a testa alta -con grandi regine della musica nera del calibro di Jessie Mae, Wynona Carr o Nina Simone. Nell’ attenzione quasi maniacale a riportare in vita le atmosfere del Northern Soul anni 60 forse sta anche l’unico vero difetto che possiamo imputare a questo lavoro: suoni puliti, canzoni leggere, esecuzioni impeccabili che però non rendono in pieno l’energia trascinante, il ritmo irresistibile e “sudato” che i Soulful mettono in pista durante i loro live. Anche in questo forse gioca in modo decisivo l’adesione appassionata ai modelli originali: si indossa il vestito buono della festa per andare in studio e ce lo si strappa letteralmente di dosso quando si sale sul palco.