Ancora pochi giorni per visitare la mostra dedicata ai “Preraffaelliti”
e all’utopia della bellezza, approdata a Torino (nello specifico a Palazzo Chiablese) lo scorso aprile (e visitabile fino a domenica 13 luglio). Ispirata a miti storico/letterari e intrisa di atmosfere gotiche e temi anche inquietanti, la mostra è appunto arrivata a Torino, dopo un tour mondiale, con 70 capolavori della Tate Britain. Si tratta di alcune opere fra le più celebri di quella che fu la Confraternita dei preraffaelliti che, in epoca vittoriana, vide artisti come Dante Gabriele Rossetti, John Ewerett Millais, Ford Madox Brown e Edward Coley Burne-Jones. L’esposizione annovera alcune delle opere più famose di questa corrente come, ad esempio, “Ophelia”, “Proserpina” e “Monna Vanna”(tanto per citarne alcune).
Seguaci del movimento artistico e letterario promosso in Inghilterra, verso la metà del IXX secolo, da alcuni pittori tra i quali appunto Rossetti, e Millais, i preraffaelliti cercarono di ricondurre l’arte all’espressività religiosa e spirituale del passato (prima di Raffaello). Dopo l’iniziale impronta mistica ed estetizzante (si ispirano alla Bibbia, alla Commedia dantesca e all’opera Shakespeariana) cominciarono, però ad assumere toni di protesta sociale contro il materialismo della civiltà industriale e lo sfruttamento delle classi povere. Alcuni dei loro dipinti si ispiravano all’imminente rivoluzione industriale nonché dall’avvento della fotografia. Di questa seconda fase furono protagonisti soprattutto William Morris e Burne-Jones, i quali tentarono di ridare dignità all’artigianato per dar vita a una concreta produzione d’arte decorativa, capace d’incidere sulla vita e sul costume sociale. Non mancano, in questa esposizione torinese, trasposizioni pittoriche del decadentismo, con temi talvolta anche lugubri e/o inquietanti. Mi riferisco ad esempio a ” La valle del riposo” di Millais o a “Prendi tuo figlio, signore” di Ford Madox Brown, ma anche a “L’ultimo giorno nella vecchia casa” di Robert Braithwaite Martineau. Quest’ultimo, in particolare mostra una scena apparentemente normale in un salotto di una casa borghese. A ben guardare, però, ci si accorge di un piccolo spiraglio, la porta semiaperta della sala, in sottofondo, lascia intravedere la scala all’ingresso, dalla quale qualcuno (del quale si vedono solo le mani) sporge una scure a qualcun altro. Scopriamo pian piano, analizzando anche altri dettagli, che la famiglia deve abbandonare la casa perché il padre ha sperperato il denaro al gioco. La stessa celeberrima “Ophelia” di Millais, che la rappresenta morente nell’acqua del fiume, ha un che di lugubre, non solo per il tema in se stesso ma anche per i retroscena. Elisabeth Siddal, che fu compagna e poi moglie di Gabriele Rossetti, posò per il quadro in questione, adagiata in una vasca piena d’acqua, prendendosicosì una broncopolmonite, che per l’epoca non era esattamente una cosa da poco. A causa di questo malanno, la sua salute fu, infatti, compromessa per sempre. Inoltre quando nel 1860 sposò Rossetti, aveva alle spalle già molte delusioni in merito al rapporto con il pittore stesso, il quale fissava la data delle nozze e poi all’ultimo secondo, la rinviava. Sembra che lo stress dovuto a questo comportamento e alla malattia, abbia aggravato la depressione di cui la donna soffriva. Dopo aver dato alla luce un bambino nato morto (nel 1861), la Siddal non si riprese più. Il marito la trovò morta poco tempo dopo (a soli 33 anni) nel suo letto. Malgrado il referto medico parlasse di “morte accidentale”, dovuta ad un’eccessiva assunzione di laudano (con cui all’epoca ci si curava), quello della Siddal fu, in realtà, un suicidio. Lo dimostrerebbe una lettera lasciata allo stesso Rossetti, che però lui bruciò. Il suicidio, all’epoca era illegale (oltre ad essere considerato immorale) e, se la notizia fosse trapelata, alla Siddal sarebbe stata negata la sepoltura in terra consacrata, per non parlare dello scandalo che avrebbe travolto la famiglia di Rossetti. “Beata Beatrix” (altro esempio di dipinto inquietante) realizzato da Rossetti tra il 1864 e il 1870, rappresenta poi un ritratto post-mortem, sempre della Siddal. Qui la modella, con occhi e bocca socchiusa, sembra una santa in preda dell’estasi mistica. Invece è morta. Il marito gli dipinse accanto un uccello rosso che, non a caso, porge nelle mani di lei un papavero (da cui si ricava appunto il laudano). Ma probabilmente i dipinti di Rossetti non avrebbero potuto essere altrimenti, soprattutto da un certo punto in avanti, dal momento che la sua fu una vita piena di dolore e morte, nonché di droghe e alcool, che lo portavano a fare scelte quantomeno bizzarre. Fece, infatti seppellire, insieme al corpo della Siddal, anche l’unica copia dei manoscritti d’amore che lui stesso aveva dedicato alla moglie: il quaderno che li conteneva venne infilato fra i suoi capelli rossi. Nel 1869, però , piegato appunto dall’eccesso di alcool e droghe (e convinto che sarebbe diventato cieco), cominciò ad essere ossessionato dal desiderio di pubblicare le proprie poesie accompagnate da quelle della moglie. Così, insieme al proprio agente, ottenne il permesso di aprire la tomba della Siddal per recuperare il quaderno: il tutto avvenne di notte, ovviamente, per evitare lo sdegno e la riprovazione dell’opinione pubblica. Ma, lasciando da parte la vita di Rossetti, devo segnalare, in chiusura, tra i quadri più particolari ed interessanti di questa esposizione, “L’amore e il pellegrino” di Edward Burne-Jones, molto coinvolgente sia per la raffigurazione sia per le dimensioni. Il dipinto rappresenta un pellegrino che esce da un percorso irto di rovi e che cerca di afferrare la mano di Amore. Un probabile riferimento alle difficoltà e ai percorsi tortuosi dei sentimenti. Superfluo aggiungere che anche quest’opera, seppur bellissima, ha qualcosa che fa rabbrividire.
Orario di visita: Lun-ven 9-18, sab. 9-13
La foto ad inizio articolo è di Ilaria Bianchini