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NUOVI INTEGRALISMI: IL CASO TURCHIA

Escludendo i territori del pianeta in cui, in questo momento, infuriano conflitti e persecuzioni, uno dei paesi in cui, come donna, non vorrei proprio vivere, è la Turchia. Se il paese in questione non è travolto dalla guerra, lo è, però, da nuove pesanti forme di oscurantismo e di integralismo che definirei comunque assai preoccupanti. Mi riferisco ovviamente alle crociate conservatrici dell’attuale premier (Recep Tayyip Erdogan), che ha proibito, prima l’alcool, poi le effusioni in pubblico, e ora  persino il sorriso alle donne. Sorridere in pubblico sarebbe, infatti, immorale.

Anche se la notizia è di un mesetto fa, circa, ritengo occorra continuare a parlarne e a scriverne, anche ripetutamente, altrimenti si corre il rischio che (una volta passato il clamore e lo sdegno momentaneo), restrizioni di questo genere si trasformino poi, gradualmente, nella normalità del vivere quotidiano. Anche se all’inizio la gente si indigna, il rischio è che con il tempo finisca per adattarsi a vivere con meno libertà e meno democrazia, scordandosi di come fosse prima.

Le parole del vicepremier  Bulent Arinc, sulla “dissoluzione dei costumi” in Turchia, sono decisamente allarmanti. Ha sostenuto, infatti, che “una donna sa cosa è immorale e cosa non lo è, e quindi, oltre a proteggere la sua castità e a non essere seduttiva, eviterà di ridere in pubblico”. La reazione delle donne turche, fortunatamente non si è fatta attendere. Grazie ai social network, in poche ore hanno inondato la Rete di selfie e di ritratti sorridenti accompagnati da ironici hashtag.

Ma reagire sull’immediato non è sufficiente. Le strategie usate da questo governo sono subdole e conducono ad inesorabili processi di regressione. Anche perché nonostante tali reazioni, l’aria che si respira ad Istanbul è pessima e assai diversa da quella di alcuni anni addietro. Io ci sono stata lo scorso febbraio e la Turchia sembrava già diventato un altro paese. Se fino a pochi anni fa le donne vestivano ormai quasi tutte all’occidentale, minigonne comprese (e l’abito nero tradizionale, con maniche lunghe e turban, appariva come il residuo folcloristico di un passato lontano), ora sono tornate ad uscire di casa con la testa coperta. Sono molte, anche giovanissime, magari non portano proprio il velo nero, ma indossano foulard un po’ più alla moda, di seta a fiori, rigorosamente però di colore scuro.

Nel 2013 il parlamento turco ha votato una legge che abolisce il divieto di indossare il velo e altri simboli religiosi all’interno degli spazi pubblici. Mi riferisco al divieto che era stato introdotto da Mustafa Kemal Ataturk, fondatore e primo presidente della Repubblica Turca, proprio per prendere le distanze da un passato che vedeva l’elemento religioso – musulmano – intimamente connesso con il potere centrale del Sultano dell’Impero Ottomano. Ataturk si impegnò per creare uno stato laico, rimosse i simboli religiosi dalla vita pubblica e segnò una netta linea di demarcazione tra religione e Stato. Ma quello che ho potuto vedere, nell’abbigliamento delle donne per le strade, va al di là di questa specifica concessione ed è il segno di una regressione che non può certo essere arrivata di punto in bianco, dall’oggi al domani. Sembra essere invece il frutto di un condizionamento che il paese subisce da tempo, senza che la gente ne abbia probabilmente una vera e propria consapevolezza, e che sta man mano, subdolamente, prendendo piede. Le donne non sono obbligate a coprirsi la testa ma sono fortemente condizionate nel fare questa scelta, per non dover pagare eventuali prezzi come perdere il posto di lavoro o anche solo essere biasimate o malconsiderate. Oltre ad aver ripristinato la libertà di indossare simboli religiosi, la suddetta legge impone, infatti, alle dipendenti pubbliche di vestire abiti castigati (pena il licenziamento).

I processi di questo genere sono graduali ma inesorabili. Nel 2013 erano state introdotte altre restrizioni, come ad esempio quelle sul consumo degli alcolici, ed è stato riportato in vigore il reato di blasfemia. Ancora prima, nel 2012 era stata approvata dal parlamento una riforma dei programmi d’istruzione delle scuole primarie e superiori, finalizzata a rafforzare i fondamenti islamici della società turca. La riforma scolastica consente ora ai genitori di inviare i bambini alle scuole vocazionali già dall’età di 10 anni (“alleveremo generazioni di giovani devoti”, ha dichiarato in merito Erdogan). Da diverso tempo,infine,ilgoverno turco sta portando avanti campagne sempre più serrate contro l’aborto e promuove ripetuti appelli alle donne affinché facciano almeno tre figli. A confermare questa preoccupante regressione che sta portando il paese indietro di più di cent’anni sono d’altronde in molti. Emin Colasan, ad esempio, uno dei giornalisti piu’ noti del paese, cerca da tempo di denunciare come Erdogan stia riportando la religione al centro della vita politica del paese e come, in seguito a questa mossa, il popolo turco sia diventato pian piano più conservatore e più assoggettato all’autorità politica, senza tuttavia rendersi ben conto di cosa stia succedendo. Non a caso, affermazioni come queste gli sono  costate il posto di lavoro al quotidiano nazionale “Hurriyet” nel 2007, sia pure con la motivazione ufficiale del prepensionamento.

Istanbul e la Turchia hanno molte anime, ma Erdogan sembra pensare che il paese sia assimilabile al mondo arabo, senza tener conto delle minoranze presenti, e soprattutto senza tener conto dello spirito laico della Turchia moderna, che ha radici lontane. Ogni mezzo sembra buono (anche agli occhi di un occasionale visitatore) per propagandare e promuovere la religione islamica. Ovunque, nei luoghi più frequentati, si trovano, in distribuzione gratuita, volantini (probabilmente rivolti ai turisti locali) che spiegano in cosa consiste la fede islamica e quali benefici si hanno, praticandola. In quest’ottica vanno interepretate anche alcune iniziative il cui vero significato probabilmente sfugge al visitatore frettoloso che tende a vederne solo gli aspetti apparentemente positivi. Come,  ad esempio, gli investimenti fatti a Istanbul per ampliare e abbellire l’area attorno alla grande Moschea Blu e riqualificare il quartiere di Fatih, da sempre il più tradizionalista della città.

Sulla piazza di Sultanamet, quella (per intenderci) dove si affacciano la Moschea, il TopKapi e Santa Sofia, si sta costruendo un grandioso museo dedicato all’arte e alla cultura islamica. L’area è attualmente cintata per i lavori in corso, ma da quel che ho potuto vedere, è vastissima, e il palazzo appare di dimensioni mastodontiche. Istanbul ha rappresentato finora il volto più cosmopolita e modernamente avanzato del mondo islamico e non ci si può che rallegrare se un grande museo della storia e della civiltà dell’Islam sorga finalmente in una grande città islamica. E tuttavia, quanto oggi accade in altre parti del Medio Oriente non può non gettare una luce sinistra anche su un’iniziativa come questa.

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