ESTASI CULINARIE

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In memoria di Eliana Passoni

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Dopo decenni di cibarie, di vino, di liquori d’ogni genere, dopo una vita trascorsa tra il burro, la panna, le salse, i fritti e gli eccessi continui, sapientemente orchestrati e minuziosamente curati, monsieur Arthens ha un pensiero che lo tormenta: il ricordo di un indefinito mitico sapore perduto nel tempo, nascosto nel cuore, un sapore d’infanzia che (come Proust nella “Recherche”) desidererebbe ritrovare più di qualsiasi altra delizia gastronomica.

Monsieur Arthens, per la cronaca, è il feroce critico gastronomico protagonista di “Estasi culinarie” della scrittrice francese Muriel Barbery, più conosciuta per “L’eleganza del riccio”. Ben lungi dall’essere paragonabile a Proust, la Barbery strizza però ironicamente, l’occhio, al ricordo delle famose madleine della “Recherche” per tratteggiare la psicologia di questo suo personaggio così pieno di contraddizioni: monsieur Arthens, appunto.

Non tutti sapranno che “Estasi culinarie” pubblicato da Gallimard nel 2000 con il titolo di “Une gourmandise” (premio per il miglior libro di letteratura gastronomica Prix Bacchus-BSN), uscì l’anno successivo in Italia, con Garzanti e con il titolo di “Una golosità” (ora fuori catalogo) e solo successivamente, nel 2008 come “Estasi culinarie” ad opera delle Edizioni E/O. Quando “L’eleganza del riccio” (che da molti è erroneamente considerato il primo romanzo della scrittrice) ha inaspettatamente ottenuto grande successo, non c’era una seconda opera da portare alle stampe per cavalcare l’onda. Così venne ritradotta quella precedente (a cura di Emanuelle Caillat e Cinzia Poli), a cui però fu dato il nuovo e più accattivante titolo.

Chi ha letti entrambi i romanzi, “L’eleganza del riccio” ed “Estasi culinarie” sa che i due testi non possono che essere considerati anelli inscindibili di una stessa catena. L’ambientazione è sempre fra l’atrio piuttosto elegante e le scale del palazzo di rue de Grenelle a Parigi. Pierre Arthens, l’antipatico gourmet, considerato un vate della gastronomia internazionale, che ne “L’eleganza del riccio” muore quasi subito, in “Estasi culinarie” ha sessantotto anni, nemmeno troppi per morire, e una vita di egocentrici e sontuosi eccessi alle spalle.

Circondato delle sue vittime (i familiari, l’amante, l’allievo, il gatto e anche la portinaia) e confortato dal variopinto ventaglio  dei loro sentimenti contrastanti , monsieur Arthens ha un pensiero che lo tormenta. Ma non è la morte, né la vecchiaia. E’ invece appunto il ricordo di un indefinito mitico sapore perduto nel tempo, nascosto nel cuore, un sapore d’infanzia che desidererebbe ritrovare più di qualsiasi altra delizia gastronomica.

Al crepuscolo della sua vita cerca di ripescare nella memoria quella sensazione, riesumando gli effluvi del suo animo bambino, i primi passi della sua vocazione, ripercorrendo la sua vita in prima persona o attraverso i ricordi di chi l’ha conosciuto. Un viaggio del mondo attraverso i sapori, una crociata verso la riconquista della semplicità, dell’autenticità di pietanze il cui ricordo è in grado di mobilitare tutti i sensi, (compreso quello della memoria).

Arthens, il feroce critico gastronomico, si lancia così in un percorso che fa del romanzo d’esordio della Barbery, quasi un’antologia di degustazioni di haute cuisine tra ricordi dolci e salati, compilando una sorta di testamento culinario:

“Forse non riuscirò a trovare quello che sto cercando, ma almeno avrò avuto l’occasione di rievocare tutto questo: la carne grigliata, l’insalata machouia, il tè alla menta e le corna di gazzella. Mi sentivo Alì Babà. La grotta del tesoro era questo, il ritmo perfetto, l’armonia scintillante tra elementi di per sé già squisiti, ma la cui successione strettamente rituale rasentava il sublime. Le polpette di carne trita, grigliate nel rispetto della loro compattezza ma per nulla rinsecchite dal passaggio sul fuoco, riempivano la mia bocca di carnivoro professionista con un’ondata calda, speziata, succosa e densa di piacere masticatorio. I peperoni dolci, vellutati e freschi, mi ammorbidivano le papille soggiogate dal rigore virile della carne e le preparavano a un nuovo, potente assalto… Quando, finalmente sazi e un po’ storditi, scostavamo i piatti, e per riposarci cercavamo uno schienale di cui la panca era sprovvista, il cameriere portava il tè, lo versava secondo il rituale consolidato e poggiava sul tavolo ripulito al volo un piatto di corna di gazzella. Nessuno di noi aveva più fame ma è proprio questo il bello del momento dei dolci: tutta la loro raffinatezza si coglie solo quando non li mangiamo per placare la fame, solo quando l’orgia di dolcezza zuccherina non soddisfa un bisogno primario, ma ci ricopre il palato di tutta la benevolenza del mondo. Se oggi la mia ricerca potrà condurmi da qualche parte, forse non sarà molto lontano da quel contrasto: il contrasto inaudito, quint’essenza della civiltà stessa, tra l’asprezza di una carne semplice e possente e la debolezza complice di una prelibatezza superflua. Tutta la storia dell’umanità, della tribù di predatori sensibili a cui apparteniamo, si riassume in quei pasti a Tangeri, e di rimando ne spiega lo straordinario potere di suscitare gioia. […]”

Ma lui, Arthens, il monarca della tavola despota cinico e tremendamente egocentrico che ha “creato e demolito reputazioni” un cattivo vero, consapevole delle proprie meschinità e per nulla angosciato dal dolore che ha dispensato con la sua penna, proprio adesso che è vicino alla fine sente che un sapore gli sfugge. “Una  pietanza primordiale e sublime che precede qualsiasi vocazione critica”, e che “alle soglie della morte, si manifesta come l’unica verità”.

Tituba, dubita, teme: “E se, in fin dei conti, a sfidarmi beffardamente fosse qualcosa di insipido?” – si domanda con ansia – “Come l’orrenda madeleine di Proust, quella stramberia pasticciera di un lugubre pomeriggio scialbo, sbriciolata in pezzi spugnosi dentro un cucchiaio di tisana – somma offesa -, magari anche il mio ricordo si associa a una pietanza mediocre, che di prezioso ha solo l’emozione che rievoca: un’emozione che potrebbe svelarmi un dono di vivere finora incompreso”.

Muriel Barbery  sa narrare molto bene quello scherzo della memoria che tutti viviamo, soprattutto con il passare degli anni, che ci fa dimenticare molte cose, soprattutto le più recenti e ci spinge a riesumare o ricordarne altre come in effetti non sono mai state.

E’ nella struggente semplicità, nella misura, che spesso si nasconde la felicità vera.
Il finale, irriverente e rivelatore, è a sorpresa.

Il libro è affascinante e coinvolgente. Assaggiare per credere.

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