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TI PERMETTO DI FAR PARTE DI ME

Pubblichiamo in anteprima la prefazione di Caterina Civallero al libro del dottor Andrea Penna “Ti permetto di far parte di me” (Uno editori)  che sarà in libreria a partire dal 16 febbraio

Otto anni fa, fui invitata da un’amica e collega a partecipare a una conferenza del dottor Andrea Penna, alla ricerca di strumenti terapeutici capaci di rispondere alle mie domande e ai miei dubbi esistenziali che non avevano risposta.

Ascoltandolo, mi fu chiaro da subito, che il tempo da me speso fino a quel giorno era stato utilizzato senza giungere a una soluzione concreta e compresi, poco alla volta, che finalmente avevo trovato il bandolo della matassa. Fu negli anni a venire che, minuziosamente, annotai su un quaderno i preziosi appunti che in parte oggi ritrovo fra le pagine di questo libro. Era chiaro che se mi fosse stato possibile trascriverli per consultarli con un filo logico, divisi per capitoli, in modo da rileggerli con calma, magari più volte, per rifletterci meglio, con il giusto tempo, avrei avuto fra le mani un regalo prezioso da condividere con tutti.

Desiderai ardentemente di trascriverli in modo da farli diventare un libro; ero certa che un giorno avrei avuto modo di proporlo al dottor Penna, per avere la sua autorizzazione. In attesa che il mio desiderio prendesse forma, coinvolsi quante più persone possibile alla scoperta degli argomenti trattati: parlavo delle sue conferenze con un trasporto contagioso e irresistibile. Chiunque accoglieva il mio invito, partecipava alle serate e ai corsi, restava affascinato dalla trattazione degli argomenti e dalle soluzioni che venivano trovate per alcuni dei grovigli più intricati che attanagliano la vita di ognuno. Restai affascinata dal Sogno guidato e da altri Atti terapeutici proposti ed esposti con semplici esempi. Verificai da subito, con curiosità profonda e con immediata riconoscenza, che funzionavano. Analizzavo i miei appunti, li applicavo nel vivere quotidiano e in pochi minuti, a volte qualche giorno al massimo, le cose intorno, e dentro di me, cambiavano.

Fu una scoperta travolgente, una vera rivoluzione.

Ogni inefficace studio precedente, seppur approfondito con perizia e dedizione, volò a gambe all’aria e fu parcheggiato in libreria come semplice esperienza culturale, come era giusto che restasse.

Cambiai visione delle cose e sposai entusiasticamente le teorie esposte nelle conferenze e ai corsi di dinamiche familiari. Incredibile la semplicità, la genialità e la dolcissima ovvietà dei movimenti che spiegavano. Finalmente avevo trovato una soluzione. Un motivo. Un senso. Una direzione. La spiegazione scientifica del senso della vita.

Mi ero sempre occupata di materie scientifiche, lo studio della biologia e della chimica mi affascina da quando sono bambina: trovare qualcuno capace di spiegare la Vita in modo tecnico, scientifico, espresso con amorevolezza rispetto e ragionevolezza fu un’esperienza che non credevo possibile. Avevo, fino ad allora, distinto il sapere dal sentire, la teoria dal sentimento. Trovare fuse insieme vita concreta e vita percepita fu la scoperta della mia vita.

Finalmente i conti tornavano: il senso che andavo cercando esisteva. Avevo avuto ragione di non smettere di cercare, benché fossi stanca di studiare, chiedere, cercare approfondire: le mie fatiche avevano trovato conforto.

Dedussi alcuni punti base che ho scritto in uno dei miei racconti dedicati al Madagascar e alla mia esperienza di volontariato per Nosybe. Ora so che parte dell’intensità di quanto ho vissuto in quei luoghi lontani era già il frutto nascosto dei lavori che avevo condiviso con Andrea Penna: avevo imparato a osservare il mondo con i suoi occhi. Compresi che il suo messaggio era ormai parte di me, che per vivere correttamente qualunque cosa, devi permettergli di entrarti dentro: solo allora il mondo comunica con te e tu con lui, tutto diviene romantico  nel suo divenire. Riporto in estrema sintesi i suoi insegnamenti:

 

 

 

 

Un giorno, mentre guidavo con questi pensieri in mente, riflettevo profondamente sul concetto di indissolubilità. Ho percepito un’emozione fortissima, di quelle che scuotono dentro, al pensiero che il rapporto con i nostri Antenati è quanto di più inscindibile e indissolubile esista al mondo. Io esisto grazie a Loro, e altrettanto, pur se in modo indiretto, Loro esistono grazie a Me, al mio vivere, pensare e agire.

Ho sentito interiormente un senso di commozione infinita.

Ho compreso e integrato maggiormente il senso dell’onorare, un concetto che viene trattato minuziosamente, in tutti i suoi aspetti nelle conferenze, nel libro, nei corsi.

Onorare i nostri Avi permette loro di esistere per sempre.

È questo il modo di restare eterni, conquistare la vita eterna.

Siamo noi, i vivi, che possiamo dispensarla.

È un compito difficile, colmo di trabocchetti, di insidie, dove il giudizio si insinua e scalza tutto, come l’acqua di un’alluvione.

È il compito dei compiti. Un atto semplice da compiere ma ammantato di polemiche e resistenze pertanto il più complesso da eseguire.

Il pensiero che qualcuno prima di me abbia desiderato vivere al meglio delle sue possibilità, come adesso io desidero per me, mi permette di sentire che nulla può essere difficile, come a volte capita erroneamente di pensare. Qualunque cosa io viva è già stata vissuta da altri miei consanguinei cento mille volte prima di me, solo in epoche e condizioni economiche sociali storiche e politiche differenti, ma proporzionalmente con la stessa intensità. Io ne conservo la memoria genetica ed energetica. Le ho in me. E le posso adoperare esattamente come adopero un braccio o lo stomaco, è il mio sapere interiore, la mia biblioteca genetica, e va al di là del mio immaginario, del mio razionalizzare.

Per dar forma a questo pensare mi ha aiutato molto guardare alcune immagini di mia Madre da giovane: fotografie scattate al matrimonio di suo Fratello. Lì aveva circa 23 anni. La guardavo, cercando di rubare i particolari, osservavo la sua pettinatura, gli abiti, i lineamenti, e mi sono vista… Io in lei. Lei in Me. Lei che oggi, se fosse viva, avrebbe 71 anni, Lei che sono 28 anni che non la vedo, non le parlo ma che è rimasta giovane ai miei occhi… Lei che da sempre è dentro di me… e non lo sapevo. Non così, almeno, come lo so oggi. E poi ho immaginato Lei nell’atto di guardare le immagini di sua Madre e così, con quest’immagine, sono andata indietro nel tempo e ho sentito le Donne della mia famiglia che si guardavano, si cercavano, provavano a conoscersi, attraverso la memoria, le fotografie, i ritratti, i racconti tramandati.

In quel momento mi sono concentrata sul permettere ai miei Genitori, e agli Antenati, di far parte di Me, e mi sono sentita più forte, più sicura.

Mi sono vista nell’atto di permettere a Me stessa di far parte di Loro e questa immagine mi ha dato coraggio e dignità.

Questi pensieri, lanciati in silenzio lungo un percorso di campagna che spesso percorro, mi hanno condotta a pensare e realizzare quanto poco scontate siano certe azioni, quanto poco automatico è il gesto di provare gratitudine per se stessi e per gli Altri. Mi è venuto alla mente un ricordo buffo e dolcissimo per la sua preziosità: Mio Padre, mancato recentemente, un giorno era furioso con il suo ottico di fiducia che gli aveva realizzato degli occhiali multifocali che lui non poteva adoperare perché gli causavano vertigini e nausea. Secondo lui il professionista aveva sbagliato le lenti. Può essere, alle volte succede. Mio Padre in quel periodo era molto teso e quel cambiamento era inaccettabile. Era così arrabbiato quel giorno: mi raccontò che aveva buttato via i suoi soldi, e che non era giusto, e che quel “cretino” non capiva niente, e che sarebbe tornato in negozio a dirgliene quattro. Conoscendolo lo avrebbe fatto e chissà quali sarebbero poi state le conseguenze.

Quando era propositivo era simpaticissimo, riusciva a farti ridere a crepapelle; quando era fuori dalle righe diventava impegnativo, un vero osso duro. Aveva l’abitudine di esprimersi, nelle sue contrarietà, in un modo che dalla ragione lo portava al torto, e come spesso succede, questa modalità si ripeteva in vari settori della sua vita, facendo di lui un uomo sempre più ferito, rabbioso, desideroso di rivalsa e di difficile gestione.

Non so cosa mi spinse a farlo: gli esposi le teorie del dottor Penna. In pochi istanti gli spiegai, con semplicità, che a provare a “portare dentro di noi” le cose che ci accadono, anche i contrasti, senza tenerle fuori e colpirle, alle volte, c’era da guadagnarci. Soprattutto in salute.

Lui di mestiere indossava una divisa e portava una pistola, la tentazione di colpire ce l’aveva innata. Gli parlai come fossimo amici. Colleghi. Senza volergli insegnare nulla, senza giudicarlo. Semplicemente condivisi con lui la mia scoperta. Non speravo né pensavo che l’avrei convinto, ma proprio perché gli permisi amorevolmente di scegliere, lui mi ascoltò.

Gli scrissi su un pezzetto di carta una piccola formula, fatta di tre frasi molto semplici, e lo invitai ad applicarla alla sua arrabbiatura.

«Papà» gli dissi «l’atto terapeutico è lasciare andare».

Mi guardò perplesso ma si fidò del mio convincimento in merito.

Su di me e su tante delle persone cui lo avevo insegnato aveva funzionato, non dovetti insistere molto.

Quando sei sicuro di qualcosa niente ti può fermare.

Quando fu a casa, prese qualche respiro, raccolse i suoi pensieri, pulì la mente e le ripeté, mentalmente, come gli avevo spiegato di fare.

Le tre frasi dell’atto terapeutico iniziavano così:

 

 

Ancora adesso che ci penso sorrido… Mio Padre era uno tutto d’un pezzo come la divisa che per anni aveva indossato giorno e notte. Pensare che sarebbe riuscito a pronunciare quelle frasi era fantascienza.

Eppure…

Nel pomeriggio, quando già era molto più calmo e magicamente pacificato, tornò dall’ottico. Espose il suo scontento e restò ad attendere qualche minuto: l’ottico scese in laboratorio, si consultò con i colleghi e quando risalì riconobbe che lo sbaglio era stato loro. Mio Padre aveva pagato con assegno al mattino, e gli fu restituita la cifra spesa per intero al pomeriggio, ma in contanti. Quando mi telefonò a raccontarmi stupito e soddisfatto dell’inaspettata esperienza positiva mi ringraziò al colmo della felicità e mi chiese se poteva copiare il foglietto per un suo amico pensionato che giocava a bocce con lui e che era arrabbiato con la figlia. Credo che nel giro di qualche giorno abbia diffuso e ricopiato quel foglietto innumerevoli volte. Probabilmente avrà pensato che quelle frasi le avevo scritte io, che fossero farina del mio sacco.

Pensare che questo risultato sia stato possibile, sapendo di quanto fosse scettico e poco incline a qualunque esercizio di riflessione mi onora e mi fa sorridere.

Io lo avevo ascoltato e lo avevo approvato, e mio padre mi aveva approvata a sua volta.

Non eravamo un Padre e una Figlia, ma due esseri umani adulti che si parlavano, si confidavano e si erano scambiati un’esperienza, una condivisione.

 

Ripensando a Lui mi rendo conto che ho passato una buona parte della mia vita a cercare di differenziarmi da Lui, un’intera esistenza a controllarlo a vivere quasi in funzione del suo agire del suo essere e del suo stato emotivo. Oggi lo capisco, ora lo vedo, nelle sue paure, nelle sue ansie, nella sua infanzia, nel suo rapporto con sua Madre, con suo Padre, con sua Sorella e i suoi Fratelli. Ora comprendo quale grande supporto gli abbia dato indossare una divisa. Ora capisco questa necessità costante di doversi difendere, di far giustizia e luce e accudire quel suo Bimbo interiore. Involontariamente io come Figlia gli ho detto: «Fidati, Papà…». Io contengo il sangue di mia Nonna, di sua Madre. Gli ho detto e dato tutto quello che forse da una vita quel bimbo si aspettava, forse la Nonna, per mezzo di me, ha detto e dato a suo Figlio quello che per timidezza insicurezza, dolce Madre di mio Padre, Nonna mia amata, non era riuscita a dare.

Questo è l’atto terapeutico, lasciarsi andare e guidare dalla nostra emotività, manifestarsi amorevolmente verso l’altro.

 

Ora comprendo che allontanarmi da lui era anche allontanarmi da me, era un lento scappare da ogni mia emozione, era un lento entrare in uno stato in ombra, un non vedermi, un non essere vista. Accudirlo era forse un tentativo inconscio, in realtà, di accudirmi, di darmi dignità, di essere per mezzo di Lui. Ora comprendo e percepisco finalmente che molte delle mie ansie giovanili, erano le sue ansie giovanili. La mia e la sua vita erano collegate a uno stesso filo, figlie di una medesima trama. Eravamo entrambi due figli alla ricerca di se stessi della propria spiaggia, baia, per poter attraccare e rilassarsi.

Ora comprendo che tutto questo movimento era normale, era la vita, era un modo come tanti di amarsi e proteggersi tra un Padre e una Figlia, era uno spartirsi di compiti, di ruoli, erano emozioni che da generazioni ci tramandavamo e ognuno di noi le dissipava nell’etere con azioni. Ora comprendo che io sono anche mio Padre e mia Madre; accogliendoli amorevolmente, permettendo loro di continuare a vivere dentro di me, ora posso trasformare tutte queste emozioni amorevolmente, ora queste emozioni sono la mia ricchezza, sono ciò che mi rendono ciò che sono, ora non sono più in ombra, ora posso vedermi, ora ho la mia identità, ho il mio passato, le mie origini, ora sono pronta per qualunque cosa diventerò.

 

Da tem­po immemorabile, sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, vicino ad Atene, c’è scritto:

 

γνωθι σεαυτον

ovvero

Uomo conosci te stesso

 

È un am­monimento che esorta l’umanità all’autocoscienza.

Se io avessi uno scalpello, e fossi chiamata a lasciare la mia testimonianza al mondo, lascerei scritto:

 

Conosco me stesso

se ti permetto di far parte di me!

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