ESTATE, TEMPO DI VACANZE

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La domanda  di prammatica che si impone, pressoché in ogni luogo di lavoro, sin dagli inizi di luglio, è: “hai deciso dove andare in vacanza”?

E quasi non si sente parlare d’altro, come se qualsiasi altra cosa dello scibile umano, dal cibo alla politica, dal sesso ai serial televisivi (ma forse cibo e sesso ancora si salvano) smettesse di esistere o di avere una qualche rilevanza.

Nel giro di pochissime generazioni, d’altronde, il fenomeno del turismo di massa ha assunto proporzioni gigantesche.

Se i nostri nonni d’estate andavano in villeggiatura e i nostri padri ogni tanto facevano un viaggetto per lo più in Europa (o magari anche solo nelle città d’arte nostrane), le nuove generazioni si pongono come meta di vedere tutto, anche i più reconditi “buchi di c…” del mondo: dai territori più inospitali (o con i climi più avversi) ai paesi politicamente instabili (se non a rischio di conflitti), a quelli dove non c’è altro da vedere che povertà e miseria.

Tutto poi dipende anche dalle mode del momento. Ovviamente.

La prima è quella del turismo enogastronomico su cui però non c’è molto da dire. Il cibo tira in qualsiasi ambito, dalla tv (dove spopolano i programmi di cucina fai da te) ai libri (possibilmente firmati da grandi chef), dai corsi in agriturismo alle degustazioni di qualsiasi tipo.

l’argomento cibo, inoltre, è talmente trasversale che interessa fasce di pubblico molto eterogenee.

La seconda moda imperante è quella, invece, delle “vacanze faticose”, in cui si scarpina come matti (possibilmente in stile sopravvivenza) nella natura più selvaggia (ammesso che esista ancora). Le mete sovente predilette in questo caso sono luoghi tra i più remoti e inospitali della terra, dove non c’è praticamente niente (anche l’acqua è difficile da reperire), ma in compenso si può contare su un’eccezionale tenuta climatica diurna di 40 gradi all’ombra e un’escursione termica bestiale di notte. In posti del genere, però, si può sempre sperare nell’esperienza da brivido di incappare in un  serpente tra i più velenosi al mondo, di quelli che si mimetizzano benissimo, non si spaventano della presenza umana e che, se ti mordono, si spera lo facciano in un punto vitale, perché tanto in ospedale non ci arriveresti comunque in tempo e moriresti quindi molto lentamente tra dolori atroci.

La Skeleton Coast della zona desertica della Namibia, ad esempio (che ha più o meno quasi tutte queste caratteristiche) una volta era “frequentata” esclusivamente dai malcapitati che, per puro sbaglio, ci naufragavano a seguito di una tempesta in mare e, una volta arrivati li, morivano per lo più nel giro di una settimana per le molteplici avversità del luogo. Oggi invece paghiamo fior di quattrini per andarci…

Se, infatti, da una parte ci sono quelli che, terrorizzati dagli attentati dell’Isis, non pensano neanche più di muoversi da casa per andare al ristorante, dall’altra troviamo la categoria di chi non torna soddisfatto da un viaggio se non ha rischiato la vita, o almeno qualche serio incidente, da raccontare agli amici. E d’altronde c’è chi rischierebbe la qualsiasi (vita compresa) pur di sentirsi come Indiana Jones o anche solo per avere qualcosa di “particolare” da raccontare o da postare sui social.

Di fatto ho visto gente tornare da viaggi in Africa, con un arto in meno (azzannato da qualche bestia feroce) e da luoghi remoti con  qualche malattia rara in più (di solito tropicale e di carattere parassitaria, difficile da diagnosticare ma anche da curare). Ma, per carità, contenti loro.

Capisco ancora quelli che hanno bisogno di sperimentare il pericolo perché altrimenti non si sentono vivi. Anche perché  di solito si tratta di gente che, per sfidare le avversità della natura o fare qualche esperienza di sopravvivenza estrema, se non altro, si allena e si prepara. Questa nicchia di bisognosi del brivido a tutti i costi è sempre esistita ma era per l’appunto una nicchia, adesso invece la faccenda è diventata un fenomeno di massa, ed è per questo che stimola la mia curiosità. Anche perché il fenomeno genera situazioni quanto meno paradossali.

Molti si improvvisano esploratori senza rendersi conto, ad esempio, che gli animali selvaggi  potrebbero avere reazioni diverse dal loro criceto domestico o senza pensare che guidare un fuori strada su terreni accidentati o in mezzo ad un deserto non è la stessa cosa che andare in ufficio con il Suv. Certo fare gli impavidi esploratori fa fico…e se puoi dire di esserci stato (in qualche luogo poco battuto)  puoi considerarti tosto o per lo meno puoi illuderti di esserlo.

Organizzazioni come “Avventure nel mondo” sono prese d’assalto ormai anche dagli individui più inetti che, pur di dire “io c’ero”, sono capaci di imbottirsi di sonniferi (perché di quel tipo di viaggi patiscono tutto), ma almeno poi possono vantarsi sui social o dal vivo, con gli amici, senza neanche rendersi conto poi  che tutto ‘sto auto-incensarsi, alla lunga,  potrebbe anche generare più antipatia e fastidio che ammirazione.

Anche le attività vacanziere più alla moda, comunque, a quanto pare devono avere un che di pericoloso: le immersioni tra gli squali o le ascensioni sull’Everest o le scalate su pareti particolarmente difficili, sembra vadano per la maggiore. Sull’Everest, adesso, sembra ci vadano cani e porci anche se l’arrivo in massa altera, in certi periodi dell’anno, gli equilibri dell’ecosistema locale causando, ovviamente, valanghe con esiti, anche in questo caso, disastrosi e letali.

Per quanto riguarda invece (altro tipo di moda imperante) le mete nei paesi del terzo mondo dove la gente fa la fame (ma quella vera), personalmente penso che abbia senso andarci se si è al seguito di una missione umanitaria o se si ha un autentica necessità di ricerca spirituale (come fa chi per esempio si ritira per un po’ di tempo in un Ashram indiano) purché la cosa non sia dettata anche qui da qualche moda passeggera.

Dopo il successo del film “Mangia prega ama”, tratto dall’omonimo romanzo di Elizabeth Gilbert, improvvisamente tutti volevano andare in un Ashram per emulare la protagonista, interpretata, sullo schermo, da Jiulia Roberts, anche se prima di allora non ne avevano mai sentito l’esigenza né tanto meno sentito parlare.

Andare nei paesi dove c’è la vera miseria umana giusto per vantarsi di averla vista e per portarsi a casa una collezione di immagini o di emozioni da sfoggiare, è senz’altro la formula che va per la maggiore, ma la trovo comunque, in qualche modo superficiale, predatoria ed egoistica. Questo però è solo il mio pensiero e la curiosità fine a se stessa, si sa, è un motore piuttosto potente. Ritengo in ogni caso che si possa andare in ogni parte del mondo ma, se nel frattempo non si è usciti da certe stanze della propria mente, viaggiare non sarà comunque un’esperienza arricchente. Sarà una momentanea distrazione o una fuga dalla realtà o, peggio, un modo come un altro per strutturare il tempo.

Sempre che non si lavori come fotografo per il National Geographic ovviamente.

Di fatto, chi sceglie questo tipo di vacanza, obietta dicendo che il suo scopo è quello di comprendere le altre culture.

Temo che la verità sia, invece, che alla fine, nonostante tutti si sentano dei novelli Terzani, di gente che va all’estero ed è in grado di comprendere davvero qualcosa, ce n’è veramente poca.

Per poterlo fare, per capirci davvero qualcosa, soprattutto in paesi con culture molto distanti dalla nostra, bisognerebbe intanto studiarsi la lingua prima di partire (almeno un po’) e, una volta giunti in loco, interagire con le persone che vivono li, fermandosi nelle varie località almeno un po’ di tempo, non certo due o tre giorni di passaggio, scattando giusto qualche foto. E poi forse l’ideale sarebbe dormire e mangiare nelle abitazioni locali non certo in strutture alberghiere o comunque turistiche, consumando cibi internazionali o magari anche locali, ma pensati appositamente per i turisti.

Inoltre, ormai la gente, quando si reca in un luogo, vuole vedere tutto ma, avendo sovente a disposizione solo le ferie annuali, finisce per adottare una formula mordi e fuggi, spostandosi continuamente e passando più tempo su pulmini e fuori strada che a contatto con la gente e con il luogo stesso.

Così alla fine, la maggior parte dei turisti si limita a collezionare immagini di usi e costumi diversi dai propri, ma sovente fugaci e inconsistenti, senza averne compreso davvero il significato e senza aver davvero interiorizzato qualcosa. Non a caso lo scrittore Paul Bowles, nel suo romanzo “Il tè nel deserto”, faceva un netto distinguo tra i turisti (che viaggiano per vacanza) e i viaggiatori  veri e propri. Due categorie che nulla hanno da spartire.

A proposito, quest’anno va di moda l’Islanda (al link https://www.5wagora.com/2016/07/27/in-irlnda/ Carlo Buscaglione ci racconta le sue impressioni) quasi quanto negli anni scorsi non si poteva fare a meno di andare a Zanzibar . Ad ogni buon conto, a qualunque categoria apparteniate, fosse anche a quella desueta dei pigri sonnecchiosi sotto l’ombrellone, buone vacanze.

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