Dov’è finita la fallocrazia?
Fino a venti o trent’anni fa, negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso fallocrazia e fallocrate (composti sul greco -kratìa, potere, governo, sul modello di ‘burocrazia’ e ‘democrazia’) erano termini d’uso quasi inflazionato. Almeno negli ambiti femministi.
Ora, da un po’ di anni non si sentono né si leggono più.
Si sarà estinta la fallocrazia? o sarà piuttosto il phallos a essersi estinto (che poi, come osserva Pietro Janni ne Il nostro greco quotidiano, 1986, phallòs presso i greci non designava realmente il membro virile, che si diceva péos o mòrion, bensì la sua effigie simbolica e apotropaica).
Per contro, si è diffuso da qualche tempo il neologismo feminicidio e, se le parole riflettono la realtà, c’è poco da rallegrarsi.
Le trasformazioni della lingua corrente nascondono sempre una logica fattuale, anche se non sempre lineare e univoca. Si dovrà dunque considerare il feminicidio una variante oppure un’evoluzione, o non piuttosto un sostituto della fallocrazià?
In altre parole: si fa fuori la donna perché il fallo ha perso il suo potere, o meglio, per restituire al fallo il suo significato simbolico (ma non gli arcaici attributi magici e bene auguranti), perché il ruolo sociale e culturale del maschio, del padre, del marito è arrivato a un capolinea, a una svolta?
Con più eleganza lo spiega Luigi Zoja (Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, 2000): “L a civiltà si costruisce con la repressione degli istinti. Ma l’individuo non può edificarla da solo. Ha bisogno di regole collettive e di celebrazioni simboliche. Anche il passaggio del maschio alla civiltà – dalla semplice fecondazione alla paternità – ha sempre avuto bisogno di rituali […] Sparito questo contorno rituale perché il maschio da autorevole si fa indegno, l’uomo è solo … Si sente risucchiare all’indietro, verso una condizione pre-civile”
In ogni caso a nessuno di noi salti in mente di dire: si stava meglio quando si stava peggio.