Manon finestra due è il garbato titolo di un cortometraggio industriale, 12 minuti, del 1956. Racconta di minatori che in massacranti turni di otto ore, giorno e notte, ai piedi dell’Adamello, nella Valle di Fumo costruiscono uno fra i più imponenti complessi idroelettrici d’Europa, una condotta forzata nella montagna. Nel gergo del loro duro e pericoloso mestiere, questi operai aprono “finestre”, scavano cioè grandi fori nel fianco della roccia, da cui scaricare il materiale “di risulta”. Ogni “finestra” ha un numero e un nome proprio. Come questa, che si chiama “Manon”: nome gentile, come sanno essere anche gentili questi lavoratori della roccia che non lasciano mai spoglio di fiori montani il quadro di Santa Barbara, la santa degli artificieri. Commissionato dalla società Edison-Volta, sceneggiato da Pier Paolo Pasolini, il film rigorosamente in bianco e nero ha la regia di Ermanno Olmi.
Bergamasco, classe 1931, Olmi – padre ferroviere madre operaia – si trasferisce giovanissimo a Milano per seguire i corsi di recitazione all’Accademia d’Arte Drammatica. Per guadagnarsi da vivere si impiega dove già lavorava la madre, alla Edison-Volta, che gli affida l’organizzazione delle attività ricreative per i dipendenti, in particolare quelle relative al servizio cinematografico, e gli viene richiesto di documentare le produzioni industriali attraverso filmati. Olmi sfrutta l’occasione per dimostrare la sua intraprendenza e il suo talento con la macchina da presa; pur non avendo praticamente nessuna esperienza alle spalle, tra il ’53 e il ’61 realizza decine di documentari.
Avevo dodici anni quando nella saletta cinematografica del milanese Museo della Scienza e della Tecnica assistetti da spettatore alla proiezione di Manon finestra 2. Ricordo che ne capii poco ma ne rimasi affascinato.
Adesso Ermanno Olmi ci ha lasciato. È scomparso, come si legge sui giornali. Non morto, deceduto, mancato. No: scomparso. Ipocrisia del linguaggio politicamente corretto, roba da Chi l’ha visto. Invece Olmi è ancora qui con noi. Con tutti i suoi film. Documentare è lavoro difficile, perché bisogna saper decidere che cosa raccontare, oltre che saper farlo bene. Olmi fu affabulatore come pochi, documentarista sommo anche nei suoi film.
Personalmente, della sua attività di regista, dopo al suo conclamato capolavoro L’ albero degli Zoccoli (1978) ho amato, amo, Il segreto del bosco vecchio (da un racconto di Dino Buzzati, 1993) e sopra tutto il suo secondo capolavoro assoluto, Il mestiere delle armi (2001), premiato con ben 9 David di Donatello: “miglior film”, “miglior regista”, “migliore sceneggiatura”, “miglior produttore”, “miglior fotografia”, “miglior montaggio”, “miglior musica”, “migliori costumi” e “migliore scenografia”, in cui ancora una volta il regista confronta – è la sua cifra stilistica – innovazione e tradizione. Olmi, uno dei più grandi protagonisti del nostro cinema. Un uomo e un cinema da 10 e lode. A Dio, maestro.