OSCAR 2019 – TROPPI FILM E ATTORI PENALIZZATI

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Comincio subito col dire che, quest’anno concordo decisamente poco con le scelte dell’Academy nell’assegnazione degli Oscar. Intanto perché hanno penalizzato “La favorita” del regista greco Yorgos Lanthimos, che considero (come per altro buona parte della critica) un capolavoro assoluto, e che in effetti, non a caso, era candidato a ben dieci statuette. Alla fine ha ricevuto soltanto quella per la miglior attrice protagonista ad Olivia Colman, nei panni della fragile e infantile Regina Anna d’Inghilterra che – per chi non lo sapesse – fu l’ultima sovrana della casata degli Stuart e salì al trono nel 1702.

Al film “Roma”, del regista messicano Alfonso Cuaròn (anch’esso candidato a dieci statuette) sono andati invece ben tre riconoscimenti. Sarà di sicuro uno splendido film (è l’unico che non sono ancora riuscita a vedere) ma ritengo che almeno una delle tre statuette (miglior film straniero, miglior regia e miglior fotografia) sarebbe dovuto andare a “La favorita”.

Tre riconoscimenti anche a “Green Book”, del regista Peter Farrelly, tra cui miglior film, nonostante avesse avuto solo cinque nomination. Si è aggiudicato anche l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale e per il miglior attore non protagonista a Mahershala Ali, che si è calato nei panni del musicista Donald Shirle.

Il film è molto ben riuscito e magistralmente orchestrato soprattutto per la riproposizione del contesto storico razzista degli Stati Uniti degli anni’60. Ha inoltre anche il pregio di aver saputo calibrare molto bene gags decisamente spassose all’interno di una narrazione decisamente drammatica, senza dover ricorrere a scene di pietismo.

Detto questo, se avessero scelto di distribuire meglio i riconoscimenti a questi tre film (che sono in effetti i tre migliori) avrebbero potuto forse anche consentire alla povera Glenn Close di vincere il premio come migliore attrice per la sua splendida performance nel film “The wife – vivere nell’ombra” (del regista svedese Björn Runge) al posto di Olivia Colman. Non voglio dire che quest’ultima non meritasse tale riconoscimento, anzi, ma la povera Glenn Close, ha già al suo attivo qualcosa come otto nomination e non è ancora riuscita (nonostante i tanti importanti film di cui è stata protagonista), a raggiungere l’ambita statuetta (una vera crudeltà considerando che ha più di settant’anni), mentre la Colman, che per altro ha una trentina d’anni in meno, era solo alla sua prima candidatura. Sono cose di cui, a parità di merito, secondo me, bisognerebbe anche tener conto.

L’unico altro, che ricordo, abbia dovuto subire una simile tortura, è stato Leonardo di Caprio che ha raggiunto l’ambita statuetta (come miglior attore protagonista) solo nel 2016 con “Revenant”, ed era alla sua sesta nomination.

Una grande mancanza di attenzione, a mio avviso, da parte dell’Academy nei confronti di una grandissima attrice soprattutto visto che, da un paio d’anni a questa parte, ne manifesta molta, invece, nei confronti degli artisti afroamericani (o appartenenti ad altre etnie) cercando smaccatamente di evitare eventuali critiche per atti di discriminazioni e razzismo. Soprattutto dopo le proteste e i tumulti che si erano scatenati due anni addietro, quando la giuria era stata accusata molto apertamente di non premiare mai registi e attori neri.

Ovviamente sono contenta che finalmente ci siano i giusti riconoscimenti anche per gli artisti di colore ma chissà come mai quando si parla di inclusione o di politiche anti-discriminatorie, queste ultime non debbano valere anche per le donne. Evidentemente, nonostante l’attivismo di movimenti come #MeeToo e #TimesUp, se si discriminano le donne non si rischia di incorrere in chissà quali proteste o forme di indignazione, e lo dimostra il fatto che, ad esempio, il premio come miglior regista lo ha vinto solo una donna in tutta la storia degli Oscar (si tratta di Kathryn Bigelow nel 2010 con “The Hurt Locker”). Per il resto i riconoscimenti “al femminile” vanno solitamente, oltre che alle migliori attrici (cosa che non si può evitare) per lo più alle migliori costumiste o, quando va bene, alle migliori sceneggiatrici.

Guarda caso “La favorita”, il film più penalizzato in assoluto, è un film che anche se porta una firma maschile, alla regia, è totalmente incentrato sulle donne (ma nessun riconoscimento hanno ricevuto le due attrici non protagoniste, seppure bravissime). Il film riporta un raro esempio di potere femminile nella storia. Qualcuno lo ha definito anche un film disturbante, e di sicuro lo è, perché è un film molto crudo, sulla manipolazione e gli intrighi di corte. Ha il grande pregio, però di mostrarci cosa si era disposti a fare per sopravvivere in epoche passate e questo valeva tanto di più per le donne che per gli uomini, poiché questi ultimi potevano sempre cercare di darsi all’avventura o di arruolarsi in qualche esercito, con la possibilità di fare comunque fortuna. Per le donne indigenti invece l’alternativa era tra fare la sguattera o la prostituta.

E guarda caso, anche il ruolo di Glenn Close in “The wife”, l’altra grande penalizzata di quest’anno, è in qualche modo “disturbante” o scomodo perché lei, in questo film, interpreta la moglie di uno scrittore famoso che sta per ricevere il premio Nobel per la letteratura. Peccato che durante la narrazione, attraverso i flash back sul loro passato, scopriamo che la vera autrice dei libri è lei, che pure ha vissuto per tutta la vita all’ombra del successo del marito, il quale, per altro, sfruttando l’ammirazione dalle fan, non ha mai disdegnato di farsi all’occorrenza diverse amanti.

Per carità saranno solo coincidenze però, guarda caso, anche alla cerimonia dell’anno scorso si sono di nuovo lasciati sfuggire l’opportunità di premiare un’altra, tra le pochissime candidate donne a migliore regista. Si tratta di Greta Gerwig con Lady Bird, un film, al contempo,molto poetico e irriverente. Le donne candidate come migliori registe d’altronde sono state in tutto, solamente cinque. E anche in questi rari casi, si arriva fino a alla candidatura, e poi, nulla…

Per passare agli uomini invece, l’Oscar al migliore attore protagonista, quest’anno, non avrebbe potuto andare se non a Rami Malek, interprete – nel film Bohemian Rhapsody – del famosissimo frontman dei Queen, Freddie Mercury.

Ma andiamo con ordine e facciamo un passo indietro così da inquadrare meglio le trame dei vari film. Partiamo dunque con “La favorita”.

Ovviamente, nonostante a me sia piaciuto molto, lo consiglio solo ai fan di questo genere di pellicole e a chi piace scoprire (o riscoprire) pagine di storia (soprattutto quelle meno conosciute) e non certo agli amanti dell’azione o degli effetti speciali.

Qui di guerre si parla molto ma non se ne vedono, almeno non di quelle che si combattono sui campi di battaglia. L’azione si svolge unicamente alla corte della regina Anna di Inghilterra, la quale, poverina, non riuscì mai a partorire un figlio vivo poiché soffriva di una sindrome che le rendeva impossibile portare a termine una gravidanza. Ci provò ben diciassette volte, ma a succederle al trono fu un lontano cugino, Giorgio I del casato di Hannover.

Il film è quasi completamente incentrato sul rapporto tra la regina (interpretata appunto da Olivia Colman), fragile di salute e di nervi, infantile e capricciosa e lady Sarah (Rachel Weisz), sua amica e consigliera, una donna di ferro, intelligente e astuta manipolatrice, a tal punto da sostituire la regina anche nelle decisioni più importanti. Le discussioni tra le due donne (e gli altri consiglieri di corte) vertono quasi per tutto il film, sull’opportunità di portare avanti la guerra con la Francia (posizione sulla quale è schierata appunto Sarah) o su quella di trattare una tregua. Pur preferendo quest’ultima soluzione,(soprattutto per non gravare di tasse il popolo), la regina si lascia sempre convincere dalla sua consigliera Sarah, almeno fino all’arrivo di una terza donna, Abigail (interpretata da Emma Stone), che sovvertirà gli equilibri esistenti con la sua grande astuzia e voglia di riscatto sociale.

Il film ci mostra la condizione di una regina che, nonostante il suo potere, non è certo invidiabile ricordandoci come erano considerate le donne a quei tempi: regine o popolane che fossero, trattate alla stregua di incubatrici atte a sfornare eredi, possibilmente uno dietro l’altro. Diciassette aborti in una vita (al pari di diciassette parti), avrebbero mandato fuori di testa qualsiasi donna, minandone salute fisica e mentale. Sottrarsi a un destino di parti ripetuti costantemente non era facile. Bisognava affilare l’astuzia come poteva permettersi lady Sarah che trovava il modo, mantenendo il paese in guerra, di spedire sempre al fronte il Duca di Marlborough, suo marito, uno dei più grandi condottieri d’Inghilterra.

Bohemian Rapsody è invece il film di Bryan Singer che racconta la vita di Freddie Mercury, il geniale front man dei Queen. A vincere l’Oscar è stato appunto l’attore protagonista, Rami Malek,  su cui nutro, in realtà, delle perplessità. Seppur bravissimo e degno di vincere un Oscar, Malek è davvero troppo poco somigliante a Freddie Mercury . Intanto è molto esile mentre Mercury era un tipo tutto muscoli e poi nel film, gli hanno accentuato fin troppo i denti sporgenti. Una scelta che, secondo me, ha peggiorato le cose poiché, nella realtà, Mercury aveva questo difetto, ma non così eccessivo e poi aveva lineamenti del viso più belli e più marcati, che gli conferivano un’espressione molto più decisa e sfrontata. Una cosa insolita se si pensa che di solito succede l’esatto contrario. Gli attori scelti per interpretare gli altri componenti della band erano, infatti, decisamente più attraenti rispetto agli “originali”… soprattutto se parliamo di Gwilym Lee che, nel film, interpreta Brian May e Ben Hardy, nei panni di Roger Taylor.

Quello che mi è piaciuto, però molto di questo film, è che, nonostante le grandi libertà che il regista si è preso sugli accadimenti veri e propri della vita di Mercury,  la narrazione si focalizza molto bene sulla parabola ascendente che porta al successo il cantante. Lo fa per altro, mostrandoci molto chiaramente come sia difficile, per un giovane ragazzo di umili origini, ritrovarsi a gestire un successo mediatico enorme e quasi improvviso.

E ora veniamo a “Green Book”. Gli attori sono il bravissimo Mahershala Ali che interpreta il raffinato pianista afroamericano Donald Shirley e un irriconoscibile Viggo Mortensen, nei panni di un italo-americano piuttosto grezzo, ignorante e un po’ bolso (Tony Vallelonga) che di norma, nella vita, fa il buttafuori nei locali notturni. Il rapporto tra i due (all’inizio abbastanza conflittuale) è calato nell’atmosfera razzista dell’America degli anni ’60, in particolare ovviamente negli stati del sud, in cui un uomo di colore poteva anche essere invitato a suonare nei circoli dei bianchi ricchi, ma poi non gli veniva consentito di cenare alla stessa loro tavola o di usufruire di servizi igienici accettabili. A peggiorare il tutto, per la mentalità di quegli anni, era che, in realtà in quegli stati, non si era mai visto un nero ben vestito che si facesse scorrazzare in giro da un autista bianco. E’questo il leitmotive di base su cui si struttura praticamente tutto il film, penalizzando un po’, a mio avviso i momenti musicali che, mi sono sembrati, ridotti al minimo.

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