Ultime ragnatele di stelle in alto, cucite in sfumature di grigio tra coni gialli di lampioni ricurvi e prime avvisaglie d’ ombre più dolci dell’ alba.
Già da lontano appare il gigante, quasi un miraggio tremante, ritagliato in lamiere cotte dal sole;
vedo esili torri grigie, issate sulle spalle di giganteschi solai vuoti, patrie del buio che evapora nell’aria.
Oltre pozze rigate da pneumatici di camion, arrivo al cantiere: groviglio di muri accennati in trincee di sacchi, betoniere abbandonate come Polifemi accecati in dedali di cavi elettrici e polvere color di luna.
Sul solaio più alto dita sottili di maghi, come attratte da maree astrali, sporgono da perfetti rettangoli di cemento: sembran camini fumanti di saghe del Nord o resti di doccioni consunti dai secoli.
Polvere umida nel naso, scricchiolii di miei passi moltiplicati da muri e corridoi, cadaveri secchi d’insetti caduti, fili d’ erba gialla oltre cataste di tubi d’ alluminio.
Attorno a scheletro di grigie torri, sotto metri di terra muta, interrogo divinità ipogee come un moderno sciamano: potrei scoprire rocce compatte, sabbia bagnata, crepe insidiose di minime frane o sagome tetre di bombe inesplose, congelate nella storia, forse ancora in attesa d’ innesco.
Passa lo schermo acceso del computer, unica falce di luce, tra pozze d’acqua sudicia e prati raschiati da ruspe, cataste di tronchi appassiti e foglie arse di vento.
Entrano i primi operai assonnati, terrei come in pannelli scolpiti di Ninive, guerrieri armati di pale e martelli.
Vengono all’assedio del castello color di luna, gigante ritagliato in lamiere cotte dal sole: per me è tempo d’ andare.