In un periodo in cui in Italia si pensa quasi solo al Covid e si discute quasi solo di green pass, altrove c’è invece chi ha continuato e continua ad occuparsi anche di altre emergenze come le guerre in corso in varie parti del mondo o quelle che sono finite ma che hanno lasciato uno scenario di miseria e disperazione, da cui è difficile risollevarsi.
Certo per un breve periodo, durato forse due settimane o poco più, si è tornati anche qui da noi, a parlare di Afghanistan, ma giusto solo per commentare due avvenimenti eclatanti che non si potevano ignorare: la riconquista del Paese da parte dei talebani e il ritiro delle truppe americane. Per un po’ di giorni sono anche circolate foto di aerei presi d’assalto all’aeroporto di Kabul, dalle migliaia di persone in fuga, nonché denunce, nel dibattito televisivo, per quella che si prospettava sarebbe stata la condizione delle donne d’ora in avanti. Poi i riflettori sono tornati a riaccendersi sulle nostre beghe interne e sulle partite calcistiche, che più di ogni altra cosa, attraggono l’attenzione dell’italiano medio.
Ma mentre noi cittadini comuni, lo scorso inverno ce ne stavamo tappati in casa a “goderci” il lockdown, – incollati al calcio e ai serial di Netflix o litigando con i familiari per chi portava giù la spazzatura – alcuni personaggi, come il noto filosofo francese Bernard Henry Levy, giravano invece, il mondo per documentare scenari di guerra e di estrema povertà nonché di disperazione vera. Con questo non voglio dire, intendiamoci, che la Pandemia non sia stata fonte di disperazione per quelle persone che hanno perso i loro cari, senza poter assisterli in ospedale o senza quasi poterne seguire le esequie, ma tutto questo continuare a parlarne come se fossimo ancora in piena emergenza, dimenticandoci di qualsiasi altra cosa, mi sembra francamente eccessivo. In Inghilterra e Spagna, tanto per dire, quotidiani e media in generale, parlano ormai di tutt’altro. Qui da noi invece ogni sera in tv va in onda la “cultura del terrore e della paura”, sempre piuttosto ben fomentata oppure quella della confusione. Continuano a propinarci, infatti, virologi, politici e opinionisti vari che sbraitano e si scannano su dati e numeri sui quali non sono mai d’accordo o facendo a gara per prospettare scenari futuri tra i peggiori possibili.
Ad interrompere tale grottesco scenario, per fortuna ci giunge ogni tanto l’eco di qualche interessante iniziativa, come quella appunto di “Une autre idée du monde”, un travel film co-diretto appunto da Henry Levy e Marc Roussell nonché il rispettivo libro uscito lo scorso 28 ottobre, per La Nave di Teseo, “Sulla strada degli Uomini senza nome”.
“Cos’è il genere umano?” si domanda il filosofo francese in questa sua ultima fatica. “La sua unità è minacciata dall’ascesa dei sovranismi e degli egoismi? Cosa ne è stato dell’ideale della fratellanza?” e ancora “Che cos’è l’eroismo?” Ovviamente queste sono solo alcune delle domande sollevate dal filosofo in questa raccolta di saggi e articoli che ci porta, seguendo le tracce dell’autore, dalla Nigeria di Boko Haram al Kurdistan iracheno e siriano, sulla linea del fronte dove si combattono Russi e Ucraini, nella Somalia abbandonata all’illegalità e alle bande islamiste, nel cuore martirizzato del Bangladesh, nei campi della miseria di Lesbo fino appunto all’Afghanistan che preparava il ritorno dei talebani.
L’iniziativa ha avuto un notevole riscontro e, se anche non ha catturato l’attenzione della massa, ha almeno fatto presa su quella di una nicchia di persone, interessate a conoscere quel che succede nel mondo, non solo in un’ottica pandemica, e che soprattutto si chiede il perché. Così, per chi fosse interessato all’argomento, citerò un paio libri e un’esposizione che reputo particolarmente interessanti, in tal senso.
“Che cos’è la guerra” ad esempio, di Domenico Quirico, giornalista che di conflitti armati ne ha vissuti parecchi e in prima persona, edito da Salani. Partendo dalla sua esperienza di inviato, in questo testo, Quirico ripercorre un decennio di storia recente, intrecciando le voci e le testimonianze di coloro che la narrazione pubblica ha spesso lasciato ai margini. Tra le sue pagine rivivono i fermenti e le attese che hanno portato alla nascita delle primavere arabe; il dramma della Siria, lacerata dalla guerra civile; l’odissea di chi è costretto ad abbandonare la propria terra e affrontare il mare alla ricerca della salvezza; la parabola di molti giovani alla deriva, radicalizzati dai cattivi maestri di un islam che ha tradito la sua vocazione di pace.
Alle storie degli altri, l’autore intreccia la propria, raccontando la traversata di ventidue ore su un barcone diretto a Lampedusa, fianco a fianco con i migranti, e rievocando i giorni disperati del suo rapimento in Siria e della prigionia.
Interessante anche l’ultimo saggio dell’orientalista Farian Sabahi, che ha scritto di recente “Storia dell’Iran, 1890-2020”, anch’esso edito da Salani, raccontando e descrivendo il passato di questo Paese per comprenderne l’attuale situazione. L’Iran è il paese che, forse più di ogni altro, affascina e al contempo causa inquietudine”, un paese pieno di contraddizioni che spesso noi occidentali non capiamo poiché ci fermiamo agli stereotipi o alla superficie dei fenomeni e dei motivi che hanno generato conflitti, dittature e scelte politiche.
Niente come l’immediatezza di uno scatto fotografico però riesce davvero a restituire la complessità e la drammaticità di un conflitto o di uno scenario di guerra; talvolta neanche un resoconto scritto o una ripresa video. Ne offre un esempio l’esposizione “Afghanistan. Dentro la guerra”, che si può visitare gratuitamente a Torino fino al 6 novembre, negli spazi dell’infopoint di Emergency – in corso Valdocco 3.
La mostra racconta vent’anni di guerra attraverso gli scatti di sei fotografi che hanno viaggiato in tutto il Paese, facendo tappa negli ospedali di Emergency e ponendo lo spettatore di fronte ad aspetti inediti e complessi come la condizione delle vittime, profondamente e indelebilmente segnate dalla sofferenza. La guerra in Afghanistan ha cambiato infatti, nell’arco degli anni, fronti e tattiche, ma ha sempre mantenuto una costante: le vittime civili. Oltre alla sofferenza, dalle immagini esposte emergono però anche una grande umanità e un invito alla speranza, racchiuse in semplici gesti quotidiani: madri che cullano tra le braccia i loro figli appena nati, infermieri che stringono la mano a un paziente sofferente e bambini in sedia a rotelle che riescono ancora a ridere e a giocare. Si tratta dunque, per il visitatore, di intraprendere un viaggio che parte dal Centro chirurgico per le vittime di guerra di Kabul per arrivare a quello di Lashkar-gah e poi ad Anabah, nella Valle del Panshir, dove Emergency gestisce un Ospedale pediatrico e un Centro di maternità. Ma il percorso comprende anche alcuni dei 44 posti di primo soccorso distribuiti su tutto il territorio sin dal 1999.
L’esposizione si può visitare dal martedì al venerdì, dalle 15 alle 19 e il sabato dalle 11 alle 18.