La violenza domestica è un fenomeno sempre più diffuso ma ancora sovente sottovalutato. Il 2022 è iniziato più o meno com’era finito il 2021, e cioè con numeri allarmanti e in crescita su violenze e maltrattamenti in famiglia, casi da codice rosso che impegnano le forze dell’ordine e riempiono le scrivanie dei magistrati. Secondo i dati della Polizia di Stato, ogni 15 minuti una donna viene maltrattata e nell’82% dei casi a farlo è un uomo di famiglia. Dietro le persiane chiuse delle case italiane si nasconde una sofferenza silenziosa e l’omicidio è solo la punta di un iceberg di un percorso di soprusi e dolore che risponde appunto al nome di violenza domestica.
Eppure, nonostante l’aumento esponenziale di violenze, dell’argomento si parla sempre meno, sicuramente anche a causa di altre emergenze che hanno monopolizzato i media e l’attenzione generale. Le iniziative di sensibilizzazione sul tema, se si eccettuano i giorni intorno all’8 marzo, sono sempre più scarse, come se la questione non fosse anche e soprattutto un problema culturale.
Fortunatamente almeno l’editoria ha deciso di trattare l’argomento in modo più approfondito, pubblicando autori e autrici che prendono in esame diverse sfaccettature del fenomeno. Nell’analizzare le dinamiche dell’abuso si tende a sottovalutarne ad esempio il linguaggio. Parte da questa premessa l’ultimo saggio di Raffaella Scarpa, docente di Linguistica italiana e Linguistica medica e clinica all’Università di Torino.
Si intitola infatti “Lo stile dell’abuso – Violenza domestica e linguaggio” ed è stato pubblicato da Treccani. La scelta delle parole e lo “stile del discorso” costituiscono il mezzo fondamentale che l’abusante utilizza per ridurre e mantenere la donna in uno stato di costante soggezione e paura.
Attingendo a un ampio corpus di casi raccolti in oltre vent’anni di ricerche, l’autrice ridefinisce la violenza domestica elaborando nuove categorie interpretative. Ne illustra anche i meccanismi occulti ancora ignoti e descrive per la prima volta, il complesso sistema linguistico che sta alla sua base, dimostrando che l’analisi linguistica dello “stile dell’abuso” non è altro che una “macchina della verità”.
Il linguaggio infatti porta alla luce proprio ciò che si vuole occultare, agli altri come o a se stessi, perfino ciò che l’individuo racchiude nel proprio inconscio.
Ma chi sono gli uomini che picchiano le donne e perché lo fanno? “Spesso si tratta di personaggi fragili, cresciuti in ambienti a loro volta violenti e maschilisti», spiega Massimo Mery, psicologo del consultorio per uomini della Caritas di Bolzano. «I miei pazienti” aggiunge “ tendono ad avere una bassa scolarizzazione e poca disponibilità economica. Di solito non riconoscono la propria condotta violenta, anzi”.
Gli sportelli di ascolto per uomini esistono ma stentano a riempirsi. Come si spiega questo fatto? “Il grande scoglio resta un sistema, il nostro, permeato dal machismo”. A spiegarlo è un articolo apparso su ilfattoquotidiano.it, in cui gli psicologi del centro di Forlì, Daniele Vasari e Andrea Spada spiegano che “Il problema è di tipo culturale: chi maltratta la propria compagna quasi sempre non riconosce di vivere un disagio e questo fa sì che difficilmente ci si rivolga ad un centro spontaneamente”. Secondo i due, occorre arrivare alla consapevolezza della propria violenza, poiché pentirsi dopo, non è sufficiente. Il solo pentimento a posteriori non porta a risolvere il problema.
Ferite a Morte è un altro saggio interessante che, pubblicato alcuni anni fa da Rizzoli, approfondisce il tema in questione. Ne è autrice la nota conduttrice televisiva Serena Dandini.
Nato come un progetto teatrale sul femminicidio, “Ferite a morte” è un’ antologia di monologhi sulla falsariga della famosa “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Master costruita con la collaborazione di Maura Misiti, ricercatrice del CNR. I testi attingono alla cronaca e alle indagini giornalistiche per dare voce alle donne che hanno perso la vita per mano di un marito, un compagno, un amante o un “ex”.
Presentato prima in forma di lettura-evento, ha visto numerose donne illustri e note al grande pubblico dare voce a un immaginario racconto postumo delle vittime, creando un’occasione di riflessione e di coinvolgimento dell’opinione pubblica, dei media e delle istituzioni.
“Tutti i monologhi di ‘Ferite a morte’ – spiega Serena Dandini – ci parlano dei delitti annunciati, degli omicidi di donne da parte degli uomini che avrebbero dovuto amarle e proteggerle. Per questo bisogna evitare di smettere di parlarne e cercare, anche attraverso il teatro, di sensibilizzare il più possibile l’opinione pubblica”.
Piuttosto datati sono anche i saggi del giornalista Riccardo Iacona e del docente Stefan Bollman che non mi stanco mai di consigliare, anche perché scritti da uomini. Uomini che finalmente sostengono i diritti delle donne denunciando quali difficoltà incontra oggi il “gentil sesso” nel portare avanti la propria vita, in relazione agli uomini e alle loro esigenze. Il primo è l’autore di “Se questi sono gli uomini” nonché di “Utilizzatori finali”, pubblicati entrambi da Chiarelettere, mentre il secondo ha firmato “Le donne che pensano sono pericolose” edito da Piemme.
Iacona in particolare evidenzia inoltre come siano molti gli uomini che, negano l’evidenza del problema o che, pur non usando violenza nei confronti delle donne, simpatizzano silenziosamente con quelli che invece la utilizzano.
“Sono ancora di più i cosiddetti simpatizzanti” scrive, “quelli che le botte non le danno ma vorrebbero che la donna fosse sottomessa e se potessero, qualche schiaffo lo mollerebbero anche loro. A questi si aggiungono i ‘negazionisti’ quelli che pensano che il tema non esista, che anzi la realtà sia radicalmente diversa – sono le donne a opprimere gli uomini – e che se si fa chiasso attorno al femminicidio o alla violenza di genere è solo colpa della lobby femminista, aiutata da una serie di maschi traditori, spesso apostrofati come ‘froci’”
“Questa violenza” conclude “ha la sua radice nella disuguaglianza” poiché, aggiungerei io, violenza e discriminazione sono due facce della stessa medaglia.
foto di Elisabetta Peyron