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FILOSOFIA, DISOBBEDIENZA E RIBELLIONE

Numerosi tra filosofi, letterati e opinionisti, stanno riportando in auge, in questo momento storico, concetti quali la disobbedienza civile, la ribellione e il coraggio di pensare con la propria testa.

Sarà forse perché viviamo in un periodo in cui l’indipendenza di giudizio o l’originalità di pensiero, a cui la mia generazione è stata – almeno in parte – abituata, non solo hanno perso rilevanza, ma sembra siano – magari anche volutamente – sottostimate.

Che io ricordi, persino a scuola, alcuni insegnanti ci stimolavano a ragionare evitando di seguire pedestremente le mode o il gregge e ad essere quanto più possibile persone uniche, con i propri peculiari punti di vista e la propria distintiva sensibilità. Come me, molte persone della mia generazione, sono state incoraggiate, in casa o a scuola, a provare curiosità verso le cose, ad approfondire o mettere in discussione le conoscenze acquisite e ad aprirsi alle novità con un approccio critico, in grado di scongiurare l’accettazione passiva, la fascinazione superficiale o la tentazione di cedere alle semplificazioni.

Di sicuro la scuola oggi – se si escludono poche eccezioni – non si prende più tali incombenze – men che meno dopo due anni di pandemia – e anche gli adulti in famiglia sono spesso assorbiti da altre cose.

Non che si possa biasimarli del tutto, ovviamente, visto che vivere è diventato sempre più complesso, soprattutto avendo la responsabilità di una famiglia sulle spalle. Ma d’altro canto è proprio perché viviamo in un mondo più complesso che bisognerebbe aiutare i ragazzi ad affrontare la vita, dando loro più chiavi di lettura e più occasioni per riflettere. Magari andando loro incontro e stimolandoli sul loro terreno: provando ad entrare nell’ambito dei loro interessi. Partendo cioè dalle loro propensioni e curiosità, evitando di ammorbarli con contenuti imposti a forza, con i quali si rischierebbe di ottenere l‘effetto contrario.

Per fortuna ci vengono in soccorso alcuni professori o filosofi. Matteo Saudino ad esempio, con il suo “Ribellarsi con filosofia” (edito da Vallardi, euro 14,90) ma anche Frédéric Gros, che ha recentemente scritto (Dés)obeir (Albin Michel, euro 19).

Una cosa che mi ha incuriosito di entrambe i saggi è che hanno volutamente riportato in auge un filosofo francese poco conosciuto: Etienne De La Boétie, vissuto nel 1500 e autore, tra le altre cose, de Il Discorso sulla sevitù volontaria. In quest’opera egli sostiene fermamente che gli esseri umani scelgono volontariamente di servire il potere. Gli individui, secondo lui, sarebbero affetti dalla paura della libertà e dal bisogno di essere protetti e rassicurati.

Per scongiurare ansia e paure derivanti dall’instabilità dunque, gli uomini accetterebbero liberamente e di buon grado di dipendere da qualcosa o qualcuno che dia loro rassicurazioni.  Educati e abituati da sempre a ubbidire fin dall’infanzia ad un’autorità (il padre, l’insegnante, il prete, il datore di lavoro etc), gli esseri umani baratterebbero la loro libertà anche solo per accontentarsi di briciole. Le famose briciole che cadono dalle tavole dei potenti. Dinamiche queste che, sempre secondo La Boétie, i potenti saprebbero bene come alimentare: attraverso la propaganda la pubblicità e l’inganno.

“Il tiranno” scrive Saudino a sostegno delle tesi del filosofo francese “si nutre della propensione degli uomini a servire il potere in cambio dei miseri omaggi elargiti dall’arroganza e abbondanza del potere, che ben sa che tutto è in vendita: basta trovare il prezzo giusto. La servitù” specifica “non richiede coraggio, non destabilizza ed è più conveniente rispetto alla ribellione, la quale necessita di grande forza interiore per mettere in discussione la realtà e provare a cambiarla. Meglio essere camerieri e giullari alla corte del tiranno, servili e tranquilli, piuttosto che uomini e donne liberi ma fragili e fuori dal regno del sovrano”.

Aggiungerei oltretutto che pur di non mettere in discussione la propria vita e il proprio status quo, buona parte degli uomini si convince – probabilmente a livello inconscio – del fatto che ingiustizie, raggiri o false promesse, siano credibili e degne di fiducia. Cullarsi in una illusione d’altronde è più gratificante che affrontare la dura realtà.

“Anche nei campi di stermino, negli ambienti controllati dalle mafie o nei sistemi di produzione coercitivi” scrive, infatti, Saudino “moltissimi individui vendono per pochi denari la propria anima al potere, non perché minacciati o obbligati ma perché preferiscono la confortevole convenienza di seguire ordini”

Per Gros l’obbedienza  si inscrive anche nel quadro della genealogia foucaltiana del soggetto moderno incentrata principalmente su due matrici: quella militare e quella religiosa. Egli mostra in particolare come, in seguito alla cosiddetta “rivoluzione militare” (così denominata dagli storici), i corpi vengano ordinati secondo un principio di perfetta docilità.

Gros però non si chiede tanto perché non si disobbedisca, quanto piuttosto perché si continui ad obbedire. “Abbiamo accettato l’inaccettabile”, scrive, ovvero le ingiustizie socioeconomiche, la “progressiva degradazione dell’ambiente, l’arricchimento di pochi a spese della maggioranza” etc. Ecco una delle probabili risposte. Da qui egli parte per creare una genealogia delle figure della disobbedienza: da Antigone, fino ad arrivare a Thoreau.

Nel 1848 (anno in cui insorse mezza Europa – da Parigi a Berlino passando per Milano, Praga, Vienna e Budapest) Thoreau pubblicava, infatti, un saggio in cui condannava apertamente le scelte del governo statunitense sulla questione della schiavitù e della guerra espansionistica contro il Messico. Per questi motivi egli si rifiutò di pagare le tasse, tentando di boicottare la politica del governo e di contrastare le scelte schiaviste del Sud, ma venne incarcerato, anche se solo per una notte (poiché sembra che una zia gli abbia subito pagato la cauzione). Proprio da quest’esperienza nacque Disobbedienza civile, un piccolo pamphlet in cui egli spiegava i motivi del suo ingiusto arresto. Egli sosteneva che fosse legittimo non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell’uomo. Per chi non lo sapesse, dalle sue riflessioni nacquero i primi movimenti di protesta e resistenza nonviolenta che ispirarono in seguito sia Gandhi sia Martin Luther King.

Ma Disobbedienza Civile parla anche a noi contemporanei. Thoreau scrive infatti che l’individuo non coincide con il suo voto e cioè con un numero che si somma ad altri numeri. Allo stesso modo per lui non è rilevante il numero e l’entità della disobbedienza: essa basta a se stessa, indipendentemente dalla sua contabilità o dalla sua capacità di formare una “massa critica”. Se un uomo è libero nel pensiero, libero nella fantasia e libero nell’immaginazione, egli non può essere ostacolato da governanti poiché rifiutarsi di assolvere un obbligo di legge non è una sfida all’autorità ma, molto più prosaicamente, un fatto che discende necessariamente dalla coscienza individuale.

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