Ci sono tre grandi protagonisti in ” Perfect Days”, l’ ultima opera di Wim Wenders ambientata a Tokyo. Al centro del film è il mite e intenso Harayama, interpretazione che è valsa l’ultima Palma d’oro a Cannes all’attore giapponese Koji Yakusho.
Sicuramente un ruolo importante lo hanno anche i bagni pubblici della metropoli, creati da importanti “archistar” internazionali e celebrati in una serie di documentari realizzati dallo stesso maestro tedesco per il “Tokyo Toilet Project”. Queste toilettes d’autore rappresentano anche il luogo di lavoro e, in significativo contrasto, lo sfondo della poetica vita interiore del protagonista, che appunto svolge le mansioni di addetto alle pulizie.
Su tutto però prevale la musica, da sempre elemento essenziale delle opere di Wenders, come appare evidente fin dal titolo del film che cita e omaggia quella ” Perfect Day” che resta uno dei capisaldi del repertorio di Lou Reed.
Nella tranquilla e routinaria vita del sessantenne Harayama le canzoni rock e soul degli anni ’60 e ’70 sono, infatti, una costante. Lui le ascolta con vecchi apparecchi a cassette, simbolo di un modo di vivere la cultura che non esiste quasi più, al pari della macchina fotografica a rullini con cui immortala gli alberi dei parchi o dei libri che consuma letteralmente la sera nella sua modesta stanzetta. Nel corso del film fanno così comparsa “Feeling Good” di Nina Simone, “House of the rising sun” degli Animals e ancora brani storici di Otis Redding, Kinks, Van Morrison, Patti Smith e Rolling Stones.
Sono dei grandi classici davvero perfetti per sottolineare i momenti delle cadenzate giornate di un uomo che ha scelto una vita modesta ed essenziale, fuori dagli schemi della famiglia ricca e potente da cui proviene come da quelli omologanti della società “usa e getta” che si è imposta a livello globale. Sono brani non a caso tutti dal mood rilassato ma sempre un po’ dissonante, ora più scanzonato ora più profondo o nervoso.
Sono canzoni che rimandano tutte a quel periodo in cui la musica era l’ espressione di generazioni che affermavano il loro diritto a vivere diversamente, che si trattasse di hippies californiani piuttosto che di neri in cerca della propria autoaffermazione o ancora di controversi giovani alle prese con i ruvidi tentacoli delle metropoli americane nel periodo che sfocerà nella cultura punk. Ancora una volta il cinema si affida alla musica di quei decenni per accompagnare e sottolineare le vicende di persone che cercano, più o meno consapevolmente, di affermare la propria unicità e diversità.
Inevitabile pensare a precedenti come quel “Forrest Gump” di Zemeckis che, pur in tutt’altro contesto e spirito, appare molto vicino per scelte musicali e valenza data alla colonna sonora come sfondo della vita di una persona non riconducibile agli schemi comunemente condivisi. In conclusione, con la sua poeticità unica e inconfondibile, fatta di sguardi e atmosfere che perfettamente si accompagnano ai suoni, Wenders è riuscito nuovamente a fare della musica la protagonista del suo messaggio di affermazione della libertà e della distanza dal sistema.