PICCOLO VADEMECUM DEI FILM IN SALA

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In attesa di riuscire a vedere il sequel di “Ferie d’Agosto” di Paolo Virzì, appena approdato sul grande schermo, verso il quale nutro però una certa perplessità (il timore forse d’esserne delusa?), mi limiterò a consigliare alcuni tra i film che mi sono piaciuti e che si possono ancora visionare nelle sale cinematografiche in questo momento, cominciando da La sala professori del tedesco Ilker Catak, che firma la sceneggiatura insieme a Johannes Duncker, suo ex-compagno di scuola. La vicenda narrata in questo lungometraggio è assai curiosa ed è caratterizzata da un crescendo di tensione costante. Carla Nowak (interpretata dalla bravissima Leonie Benesch) è una giovane e promettente insegnante di una scuola media tedesca, al suo primo incarico. A parte una serie di furti reiterati, nella scuola tutto sembra andar bene, fino a quando lei non decide di prendere un’iniziativa per scoprire chi possa essere il colpevole. Tale decisione, presa con le migliori intenzioni (prima su tutte quella di interrompere la prassi degli interrogatori ai danni di studenti innocenti), scatena però una serie inarrestabile di reazioni a catena e un crescendo di scontento e tensione sempre più difficile da gestire, anche per la stessa preside che pure adotta una politica di tolleranza zero. La sala professori fotografa lo stato di un’istituzione in piena crisi, in cui il rispetto è stato sostituito dal sentimento umorale, per cui all’insegnante si dà retta finché è simpatico dopo di che lo si seppellisce sotto qualche sorta di mobbing o lo si espone alla gogna in balia di alunni e genitori arrabbiati o scontenti. Il finale, che eviterò di svelare, non culmina, come ci si spetterebbe, in una tragica esplosione, come un suicidio o un incidente mortale, ma ci mostra l’unica prospettiva a cui dovremmo mirare. Interessante in questo film è anche il fatto che non si scivoli mai nella tentazione di dare giudizi e tanto meno soluzioni o risposte.

Passiamo a The perfect Days l’ultima osannata ma anche molto criticata, opera di Wim Wenders che ha vinto due premi a Cannes e ha avuto una nomination agli Oscar come miglior film in lingua straniera. E’ un’opera di cui ho sentito elogi sperticati ma anche critiche quasi feroci. La trama è molto semplice. Il signor Hirayama vive una quotidianità modesta e solitaria, quasi alla stregua di un monaco zen, facendo le pulizie nei bagni pubblici di Tokio e mettendo in pratica la teoria del “Qui e ora” e della presenza mentale. Hirayama pulisce meticolosamente le bellissime toilettes realizzate da alcuni tra gli archistar più noti al mondo nel quartiere di Shibuya. La giornata festiva invece la trascorre facendo lunghi giri in bicicletta per parchi e lungo il fiume. Quando Niko, la sua nipotina gli suggerisce di pedalare fino a raggiungere il mare, lui risponde “un’altra volta” e quando lei chiede perché la sua replica suona così: “un’altra volta è un’altra volta mentre adesso è adesso”, frase che per altro diventa una cantilena o forse una sorta di mantra.

“Adesso è adesso” potrebbe essere inteso come un escamotage per poter restare nella propria confort zone a vita (evitando di confrontarsi con sfide che si ha paura di affrontare) oppure potrebbe essere l’affermazione del “qui ed ora”: della presenza mentale, “il miracolo che in un baleno richiama la nostra mente dispersa e la ricompone, consentendoci di vivere ogni attimo della nostra vita”. Dipende ovviamente dai punti di vista, ma chi non ha amato il film si è domandato “Può esserci qualcosa di più noioso, ripetitivo e vacuo di un “paradiso” senza contrasti, lotte e, insomma, vita?” In questo film, secondo alcuni suoi detrattori, il Giappone sarebbe “declinato secondo la visione distorta e parziale nonché idealizzata di noi occidentali” che ci lasciamo trascinare in questa apparenza, nell’idea che una vita semplice valga più di tanti affanni o che il paradiso sia un luogo in cui non accade mai nulla di nuovo.

Scrive Emanuele di Eugenio su “Hall of Series”: “Provo ad abbandonare l’idealizzazione occidentale e a calarmi nella sua vitae d’improvviso mi si apre un mondo. Un mondo di isolamento e fuga dalla realtà. Ecco che di colpo il suo Ikigai si trasforma in Karoshi, mortifero stacanovismo giapponese che è nient’altro che tentativo di estraniarsi da un mondo alienante … E anche l’amore, l’idea di un sentimento profondo che metta radici nel suo cuore viene rifiutato, negato, allontanato”.  Tra una scena e l’altra, tra il ripetersi delle azioni, il regista ci lascia intravedere a tratti, un passato forse traumatico (i sogni in bianco e nero, le allusioni della sorella al padre). Forse Hiraiama ha vissuto un trauma che non ha saputo affrontare e cerca di soffocarlo con il maniacale ripetersi delle azioni quotidiane, rinunciando così, probabilmente alla vita.

Un altro film che propone suggestioni orientali (nello specifico coreane) è Past lives della regista Celine Song, seppure ambientato per buona parte negli Usa. La sua prima proiezione è stata nel 2023 al Sundance Film Festival, poi la Berlinale poi un altro milione di festival in giro per il mondo in cui accumulare premi e riconoscimenti e finalmente è arrivato in Italia a metà febbraio scorso (non prima di essere passato in autunno alla Festa del cinema di Roma). È una storia anch’essa semplice, che diventa però unica nel momento in cui riesce a comunicare un sentimento estremamente complicato, che sta tra il rimpianto, l’amore, il desiderio di aver vissuto anche un’altra vita e quella strana sensazione data dal desiderare qualcosa che sappiamo essere impossibile da avere. E’ la storia infatti di una ragazza coreana che a 15 anni si trasferisce con la famiglia in America, lasciando però a Seul il legame con un suo coetaneo e compagno di scuola per il quale provava dei sentimenti. Diversi anni dopo, una serie di casualità la porta a cercare il nome di questo ragazzo che non ha più visto e sentito sui social. I due si sentono via Skype e si riavvicinano sentimentalmente, anche se entrambi hanno già una relazione in piedi per conto proprio, e a un certo punto l’esigenza di vedersi è impossibile da eludere. Di più non dirò per non spoilerare il finale.

Povere creature invece, consacra il regista greco Yorgos Lanthimos nel novero dei geni visionari. Non che nutrissimo dubbi in proposito, soprattutto dopo film come “La favorita” e “The Lobster”, ma quest’ultima pellicola (in originale “Poor things”), che ribalta molte delle concezioni a cui siamo abituati da secoli, è un capolavoro. Non a caso il film ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia e ben quattro Premi Oscar, tra cui migliore attrice ad Emma Stone.

C’è chi lo descrive come una versione gotica di “Barbie” e chi, invece come una rilettura di “Frankenstein”. In realtà si tratta dell’adattamento del romanzo omonimo di Alasdair Gray del 1992. Si tratta fondamentalmente di una favola a lieto fine. Tralasciando il dibattito in corso su chi sostiene che sia un film femminista e chi, al contrario, lo ritenga invece addirittura maschilista, ho trovato la narrazione brillante e spassosa, romantica e gotica, ma poi  Lanthimos l’ha anche dissemina di provocazioni, ribaltando tutta una serie di sovrastrutture, di schemi mentali o morali e di luoghi comuni a cui siamo abituati.

Bella Baxter, protagonista del film (interpretata appunto da Emma Stone), è una giovanissima donna, riportata in vita dopo aver tentato il suicidio, gettandosi da un ponte sul Tamigi. Goodwin, che è una sorta di Frankenstein (interpretato da uno straordinario Willem Dafoe), ne recupera il corpo quando è quasi in fin di vita ma non ancora irrigidito dal rigor mortis. Quest’ultimo trapianta nel cranio della donna il cervello di un neonato – quello che lei portava in grembo, al momento del tentato suicidio. Bella è dunque una bimba nel corpo di una giovane donna che si muove in modo incerto e che sta scoprendo il mondo, man mano che acquisisce capacità verbali e motorie. E’ ingenua, diretta, completamente priva di filtri e sovrastrutture, nonché di inibizioni ed è incapace di censurarsi. Come  il “buon selvaggio” di Rosseau, è pura e dà per scontate le libertà che la società, governata dagli uomini e per gli uomini, ha invece soffocato.

Il suo creatore la tiene rinchiusa nella sua grande casa con giardino per proteggerla dai pericoli del mondo esterno, la affida ad un assistente che ne monitora i progressi come se fosse un esperimento. A costui, Goodwin propone di prendere in moglie Bella. La ragazza però manifesta sempre più ribellione curiosità,  ribellione, anche ovviamente nei confronti del sesso, così come poi lo sarà nei confronti di nuovi cibi mai sperimentati prima, o di nuove idee e nuovi libri. Decide pertanto di fuggire con un avvocato senza scrupoli (Mark Ruffalo) che la seduce per avere a disposizione una giovane e bella donna ingenua, disinibita e disponibile a sperimentare qualsiasi piacere sessuale.

Bella è incuriosita da ogni cosa perché ha una fame insaziabile nei confronti di qualsiasi nuova esperienza. Seguendo solo il suo istinto, ingurgita cibo fino a non poterne più per poi sorprendersi a vomitarlo o, al contrario, se ciò che mangia non le piace, lo sputa nel piatto, infischiandosene delle reazioni dei commensali accanto a lei. Vuole vedere tutto e sperimentare tutto comprese le cose più degradanti come la prostituzione. Quando però Bella scopre che potrebbe essere pagata per i suoi “frenetici sobbalzi” (così si riferisce al sesso) – per i quali prova un evidente, quanto apertamente dichiarato piacere – non le passa per l’anticamera del cervello di sentirsi degradata o perduta. Anzi trova la cosa entusiasmante perché le offre nuove possibilità di sperimentare il mondo. Allo stesso identico modo si appassiona alla filosofia, alle letture, agli ideali socialisti, alla chirurgia … Incredibile ma vero prova entusiasmo anche per le difficoltà, la sofferenza e il degrado, come cose da esperire per raggiungere la saggezza. Il bordello parigino in cui finisce, ad un certo punto della storia, diventa per lei addirittura simbolo di indipendenza e libertà.

Per chi non li avesse visti, al momento in sala si possono ancora recuperare Oppenheimer di Christopher Nolan e C’è ancora domani, di e con Paola Cortellesi. Il primo è basato ovviamente sulla biografia del fisico teorico Robert Oppenheimer, considerato il padre della bomba atomica. Il film racconta la sua vita concentrandosi prevalentemente sulle sue ricerche, sulla sua direzione del progetto Manhattan durante la seconda guerra mondiale e sulla sua caduta in disgrazia a causa della sua audizione di sicurezza del 1954. Il film ha vinto ben quattro Golden Globe e tre Oscar, tra cui miglior regia e miglior attore protagonista a Cillian Murphy.

C’è ancora domani, invece è ambientato nella Roma del dopoguerra e raccontando la storia e la “vita grama” di Delia (interpretata da Paola Cortellesi) che, vivendo con la famiglia nel sottoscala di un condominio popolare e accudendo figli, marito e un anziano suocero, ci mostra la condizione della donna in quegli anni. Delia infatti, come tante altre sue coetanee si arrabatta per fare tutto in casa e per guadagnare qualche soldo fuori con lavoretti di rammendo, riparazione ombrelli e facendo iniezioni a domicilio. Secondo il suocero però ha il difetto di rispondere a tono, in un epoca in cui le donne invece tenevano la bocca chiusa. Per questo il marito Ivano (Valerio Mastandrea) ritiene suo diritto riempirla di botte e umiliarla quasi di continuo. A più di cento giorni dalla sua uscita, il film continua a portare gente in sala e ha superato la soglia dei 38 milioni, con un numero totale di spettatori pari a circa 5.500.000. Un risultato straordinario per l’esordio alla regia della Cortellesi, che dal 13 marzo è stato distribuito anche in Francia con il titolo Il reste encore demain. La pellicola ha vinto inoltre il Dragon Award per il miglior film internazionale, premio assegnato dal pubblico al Goteborg Film Festival, il più grande festival di cinema dei Paesi Nordici.

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