Il signor Hirayama vive una vita modesta e solitaria facendo le pulizie nei bagni pubblici di Shibuya.
Shibuya è il quartiere di una delle stazioni dei treni superveloci tra le più affollate di Tokio, una sequenza di grattacieli sui quali sono piazzati megaschermi che rendono brillanti e multicolori i giorni e le notti, ma la città avveniristica e del business per Hirayama non esiste, e neppure per Wenders.
Ogni volta che una ripresa allarga il campo oltre i pochi metri quadrati attorno al protagonista i grattacieli che fanno da sfondo sono sfocati, una specie di quinta teatrale dipinta a chiazze di colore che risulta irrilevante per il protagonista e per noi spettatori.
Hirayama vive, come se fosse un monaco zen, in una Tokio orizzontale, fatta di toilette pubbliche per la strada, parchi, negozietti che si affacciano sulla vie strette come una qualsiasi città asiatica. Una città orizzontale dove è necessario guardare verso l’alto per vedere il cielo o un albero e dove la vita è fatta di cose semplici.
La vecchia casa in legno a due piani dove abita è minuscola. E’ composta da un locale di servizio che funge anche da cucina, una stanzetta dedicata alle piccole piante che ogni mattina lui innaffia con cura e la camera – la sua cella monacale – dove oltre all’assito conserva i libri e le cassette musicali con il vecchio riproduttore stereo.
Questa casa al primo piano ha però delle grandi finestre che permettono alla luce naturale di entrare. E’ il suo rifugio ma è aperta al mondo e alla natura e Hirayama, dopo la sua meticolosa preparazione, ogni mattina uscendo, si ferma sulla soglia e guarda in alto, presumibilmente verso il cielo o verso un albero e sorride suggerendoci che un altro giorno perfetto sta per iniziare.
Dopo aver preso un caffè da un distributore automatico la routine della sua giornata prevede un lungo viaggio verso il centro, il suo lavoro di pulizia svolto con una meticolosità estrema, la pausa pranzo al parco dove ogni giorno con una vecchia macchina fotografica analogica a rullino fotografa sempre lo stesso albero maestoso che domina la panchina, sulla quale consuma il suo panino (la nipote Niko gli chiederà se quell’albero è un suo amico), la sua cena consumata sempre negli stessi due o tre locali, il rientro a casa dove la sua giornata finisce con la lettura di un libro.
La sua auto possiede un riproduttore di cassette musicali, tutte rigorosamente anni settanta tra cui Animals, Patty Smith e Lou Read con la sua “Perfect days”. Il viaggio in auto funge così da colonna sonora.
Wenders sembra qui interrogarsi se davvero ci serva qualcosa in più di quanto avevamo negli anni settanta. Le innovazioni tecnologiche hanno davvero migliorato la nostra vita?
Forse le cassette musicali (quando il protagonista riavvolge il nastro con una matita mi ha riportato a ricordi che credevo perduti), la macchina fotografica a pellicola (che ti obbligava a scegliere con cura gli scatti da fare su un rullino da 12 o 36) e i solito libri cartacei, magari di seconda mano, non hanno nulla da invidiare alla musica in streaming, alle macchine digitali con foto infinite, agli ebook.
Il caso ha voluto che proprio nei giorni in cui sono andato a vedere Perfect Days stessi leggendo un libro del maestro zen Thich Nhat Hanh “Il miracolo della presenza mentale” il cui sottotitolo recita: “come trasformare ogni atto della vita quotidiana, da lavare i piatti a bere una tazza di tè, in un esperienza gioiosa, totale e illuminante”.
Il parallelismo tra quanto insegna il Maestro e quanto vive il protagonista è sorprendente.
Il sincero stupore con cui Hirayama guarda il cielo, l’albero ogni giorno mutevole nelle stagioni, la piccola foresta in casa propria, fatta di piantine minuscole, ognuna con un suo colore ed una sua forma unica, sembra la trasformazione cinematografica del passo del libro “ogni giorno siamo partecipi di un miracolo di cui nemmeno ci accorgiamo: l’azzurro del cielo, le nuvole bianche, le foglie verdi, gli occhi neri e curiosi di un bambino, i nostri stessi occhi. Tutto è un miracolo”.
L’attenzione con la quale il protagonista pulisce le toilette, fino a ricercare con uno specchietto eventuali macchie nascoste, può apparire assurda, magari eccessiva, come il suo aiutante non manca di sottolineare, ma non è solamente dedizione al lavoro è invece, un altro insegnamento per noi, gente attiva, che non ha tempo da spendere passeggiano e sedendo sotto gli alberi. Nelle nostre vite bisogna realizzare progetti, darsi da fare, gestire le situazioni con abilità e velocità.
“Potreste chiedere” scrive il Maestro “ma allora, come è possibile praticare la presenza mentale? La mia risposta è: concentratevi su quello che state facendo, siate vigili e pronti a gestire ogni possibile situazione con abilità e intellige nza; ecco la presenza mentale. Non vedo perché la presenza mentale dovrebbe essere qualcosa di diverso dal concentrare tutta la propria attenzione sul compito del momento, essere vigili e servirsi al meglio del proprio discernimento”.
La giornata festiva Hirayama la spende facendo lunghi giri in bicicletta per parchi e lungo il fiume e quando Niko, la sua nipotina gli chiederà se possono arrivare fino al mare, lui le risponderà “un’altra volta” e quando lei chiederà perché la replica sarà “un’altra volta è un’altra volta mentre adesso è adesso”, frase che diventa una cantilena, un mantra, ripetuto dai due protagonisti che la canticchiano in uno dei momenti più spensierati.
“Adesso è adesso” potrebbe essere inteso come un escamotage per poter restare nella propria confort zone a vita (evitando di confrontarsi con sfide che si ha paura di affrontare) oppure potrebbe essere l’affermazione del “qui ed ora”: della presenza mentale, “il miracolo che in un baleno richiama la nostra mente dispersa e la ricompone, consentendoci di vivere ogni attimo della nostra vita”. Dipende ovviamente dai punti di vista.
Wenders sembra più propenso verso questa seconda ipotesi. Giornate dove ogni attimo viene vissuto intensamente non sono forse “Perfect Days”?