Da alcuni anni i miei viaggi in Oriente hanno due capisaldi: vanno fatti in solitaria e, a meno che non ci sia qualche motivazione particolare, mi muovo a piedi per città e dintorni.
L’attitudine a muoversi a piedi risale a moltissimi anni fa, direi quasi innata, ma fino a poco tempo fa non esisteva il contapassi e quindi non ero in grado di quantificare il mio sforzo; ora lo so: la mia giornata di vacanze media prevede oltre 30.000 passi.
Se volete potete seguirmi in una mia camminata tipo per Chiang Mai.
Il mio albergo si trova fuori dalle mura della città, accanto al fiume Ping e ogni mattina uscendo, scelgo di passare dal mercato all’ingrosso di frutta e verdura, il Mueang Mai, aperto dall’alba a notte fonda, dove i negozianti, gli ambulanti, i ristoratori e le famiglie si riforniscono dell’incredibile varietà di frutti che la terra thailandese dona ai suoi abitanti.
Il banco più interessante è quello che vende un solo frutto, il Durian “ il principe dei frutti” secondo gli orientali, di cui nella sola Thailandia esistono oltre 300 varietà, ma che gli occidentali non riescono ad apprezzare. E’ per altro severamente proibito negli alberghi dato che il suo “aroma” viene accostato a quello delle uova marce. Il suo odore penetrante lo rende anche di difficile trasporto essendo facilmente individuabile nel bagaglio.
Nel 2019 fu addirittura responsabile di un atterraggio di emergenza di un Boing 767 canadese, dal momento che i piloti, percependo un forte odore che a loro parve simile ad una fuoriuscita di gas, indossarono le maschere ad ossigeno ed effettuarono una manovra di emergenza per poi scoprire, una volta atterrati, che si trattava del durian infilato in un bagaglio a mano.
Mescolato agli altri mille odori del mercato dei banchi all’aria aperta a me non ha particolaremente impressionato, ma io non sono molto sensibile agli odori … Camminando per le stradine della città si incontrano inoltre ambulanti che vi fanno per 50 bath (un po’ meno di un euro e mezzo), centrifugati o smooty di dragon fruit, papaia, arance, mango e molti altri frutti di cui è difficile ricordare il nome, a volte poetico, come quello dei longan che qui chiamano “occhio del drago”. Il longan si presenta come un bulbo con una buccia di colore marrone chiaro che al suo interno racchiude una sfera biancastra al cui centro si trova il seme del tutto simile ad una pupilla d’occhio castano.
Un piatto prelibato per i Thailandesi è anche lo “sticky rice with mango” che vi offrono pressoché ovunque. E’ composto dal frutto tagliato a fette, riso glutinoso e un bicchierino di latte di cocco che si aggiunge, a piacere, sul riso per poi mangiarlo con il mango.
Terminato il mercato si incontra il Consolato americano con la sua piccola lapide che ricorda i 200 anni di amicizia tra il popolo americano e quello thailandese e, proseguendo lungo il sinuoso tragitto del fiume si incontra il quartiere cinese, che come in ogni città è annunciato da un elaborato “arco” con colonne in legno rosso e architrave con ideogrammi colorati. Qui si trovano i mercati più economici e più strabordanti (di qualunque merce) della città: spezie, souvenir, stoffe, abiti, oggetti religiosi e molti altri, come sa chi si è imbattuto, ad esempio, nella China Town di Bangkok che tra l’altro custodisce il Buddha d’oro.
Arrivato all’angolo tra il lungo fiume e Tha Phae road, svoltando a sinistra, inizio a percorrere la via d’accesso alla città, ora una sequenza di negozi, ristoranti, centri massaggi e botteghini cambia valute hanno riempito lo spazio che una volta esisteva tra i wat ad est della città. Il nome wat, in lingua Pali significa “luogo dove è costruito il tempio” perché quello a cui ci si trova di fronte non è mai una singola costruzione ma un agglomerato di templi, stupa (che qui chiamano chedi), che comprende sale per la meditazione o le preghiere, scuole, giardini, alloggiamenti dei monaci, laghetti etc.
La strada è anche la sede del mercato notturno di Chiang Mai che si svolge la domenica sera quando, resa pedonabile, ospita decine e decine di venditori che espongono per terra le loro merci mentre suonatori si mescolano alla folla chiedendo offerte oppure si improvvisano spettacoli di danza. La strada è illuminata da molti archi disseminati di lampadine che ricordano le luminarie delle sagre di paese da noi in Italia. A me piace immaginare questa via come doveva essere prima dell’avvento del turismo straniero: una strada sterrata che conduceva dal fiume alla porta della città, quando i wat erano monasteri fuori dalla città disseminati tra la vegetazione e avvolti dal silenzio rotto solo dai rintocchi delle campane e dai riti dei monaci.
Ed eccoci sulla spianata di fronte alle mura che ancora intatte, racchiudono la città vecchia con tanto di fossato che all’angolo nord si riempie di fiori di loto. Si passa per la porta che conserva i battenti in legno e qui, vista l’ora, si potrebbe cercare un locale o un banchetto di street food che ci prepari il thai pad, il piatto tipico a base di noodles di riso saltati nel wok. Ho scelto il banchetto dove il ragazzo mi ha fatto accomodare su uno sgabello in un tavolo con altri avventori. Di fronte a me posso vedere la cuoca che cucina per noi. La ricetta è semplice: per prima cosa, nel grande wok, la donna ha rotto un uovo per ciascuna porzione, quindi ha aggiunto germogli di soia, pezzetti di lemongrass e pak choi, carote crude tagliate a listelle mescolando il tutto dopo aver aggiunto salsa di soia. Una volta amalgamato il condimento si versano dentro le tagliatelle di riso e un mestolo di acqua per ciascuna porzione e si continua a girare il tutto finchè l’acqua viene completamente assorbita. La base è dunque pronta e, a seconda che si sia scelto dal menu il thai pad con gamberi, pollo, maiale o verdure, i rispettivi ingredienti, che sono stati nel frattempo cucinati a parte, vengono aggiunti e il piatto può essere servito.
Dopo questa meritata sosta, decido di raggiungere il monastero più interessante e mistico di Chiang Mai, il Wat U-Mong. Dal punto in cui siamo vicino alla porta orientale, il monastero dista circa 5 chilometri e mezzo a piedi: dovremo attraversare tutta la città vecchia, uscire dalla porta occidentale Suan Dok e prendere la strada verso le prime pendici delle colline del distretto di Suthep che attorniano la vecchia capitale del regno Lanna.
Chiang Mai fu fondata nel 1292 da Mengrai un principe della etnia tai-yuan che attualmente conta circa 6 milioni di individui tra il nord della Thailandia e il Laos e divenne la capitale del Regno di Lanna che durò, con la parentesi delle dominazione birmana, fino al 1899 quando venne annesso al regno di Siam o Thailandia da Rama V. Ho potuto constatare che gli abitanti della parte settentrionale del paese si sentono orgogliosamente diversi e parlano un dialetto a parte rispetto al resto dei thailandesi.
Riprendiamo allora la Tha Phae street che è pedonale e funge da asse della città congiungendo le porte di accesso e camminiamo in direzione ovest fino ad arrivare all’ingresso del Wat Phra Singh, il tempio più venerato della città fondato nel 1345 e centro monastico tuttora attivo con il suo spettacolare chedi dorato, un antico tempio in tek e la statua del Buddha Leone.
Ogni wat è un piccolo mondo a sé, un oasi di pace, nonostante un certo sovraffollamento di turisti, e in alcuni casi si trovano dei punti dedicati a chiunque voglia incontrare un monaco.
Ovviamente ho colto questa opportunità e mi sono seduto di fronte a un giovane monaco di 17 anni, coadiuvato da uno più anziano, che ha iniziato il nostro colloquio in inglese sciorinando le tre regole cardini del buddismo: “non fare il male”, “fai il bene” e “pulisci la tua mente – clean your mind”, il loro modo per dirti che devi meditare. “Ogni mattina ci alziamo, ci laviamo i denti, facciamo la doccia, puliamo il nostro corpo e ci dimentichiamo la cosa più importante: pulire la nostra mente” ha chiosato il monaco anziano…
Ancora oggi i thailandesi di sesso maschile sentono l’obbligo morale di trascorrere del tempo ed effettuare il noviziato in un tempio buddista. Al novizio vengono rasati i capelli a zero, e dotato di un sari e di una ciotola, per il periodo che trascorrerà nel monastero, dovrà vivere come tutti gli altri monaci. Alla fine di questa esperienza egli diverrà un khon suk, un “uomo fatto”.
La guida che ci ha raccontato la storia dello splendore e della caduta della vecchia capitale di Ayutthaya distrutta dai birmani nel diciassettesimo secolo, trascorse in monastero, un mese ogni anno dall’età di 17 a 23 anni.
Il tempo è trascorso veloce ed è pieno pomeriggio quando riprendo la via principale in direzione Ovest, giungendo alla Suan Dok, l’altra porta della città da dove parte la Suthep road, questa volta priva di negozi accattivanti, verso le zone boschive e collinose che porteranno alle montagne sacre di Doi Suthep e Doi Pui e al Wat Phra That Doi Suthep uno dei monasteri più importanti della Thailandia.
Questo tempio fu fondato nel 1383 per custodire una importante reliquia : un frammento di osso della spalla del Buddha storico. Purtroppo l’osso si spezzò e si decise di custodirne una parte nel Wat Suan Dok costruito vicino alla porta della città, mentre il secondo pezzo fu legato al dorso di un elefante bianco che fu lasciato libero per la foresta fino alla fine dei sui gironi.
Nel luogo dove l’animale decise di morire venne poi fondato il monastero. Purtroppo l’elefante scelse un luogo a 16 chilometri dalla porta occidentale della città, troppi anche per un camminatore come me, data l’ora e sapendo che alla fine del viaggio bisognerà affrontare una ripida scalinata di 306 gradini per accedere al tempio.
Mi accontento quindi di raggiungere il Wat U-Mong attraverso le vie sterrate che si snodano tra piccole case, boschetti di bamboo e palme. Il monastero, benché abbastanza frequentato (siamo nella stagione di punta del turismo mondiale), è davvero un insieme di costruzioni disseminate tra gli alberi tra i quali scorazzano gli animali allevati dai monaci, il laghetto con i pesci da sfamare per acquisire meriti e un vecchio cimitero. Esso è tutt’ora un attivo centro di meditazione e scuola sull’insegnamento del Buddha ma ciò che lo rende unico, è l’esteso sistema di tunnel (in thailandese Umong) ricavati dentro la piattaforma di mattoni alta diversi metri che fa da base per il Chedi. Sembra che in questo piccolo labirinto sia stato rinchiuso intorno al 1380 il monaco “pazzo” Thera Jan, troppo illustre per essere allontanato dal luogo dove viveva.
Il giorno volge ormai verso la sera ma il luogo, uno dei “monasteri della foresta” come li chiamano qui, è veramente mistico, tra i cartelli meditativi che si incontrano inchiodati alle cortecce degli alberi, una ragazza assorta in meditazione al margine della spianata del chedi, la vecchia signora che mi mostra felice come i voraci pesci gatto gradiscano le sue “offerte”, i gruppi di monaci intenti alla raccolta delle foglie e alla pulizia dei sentieri.
La città è assai vicina e prima di giungere a destinazione bisogna oltrepassare la trafficata arteria che porta all’aeroporto, ma appena oltrepassato il cancello d’ingresso si è catapultati in un ambiente che non sembra avrer fatto molti cambiamenti da quando la Thailandia veniva ancora chiamata Siam.
Con una certa riluttanza lascio questo luogo di pace per ritornare sui miei passi, oltrepassare la porta ovest, e riportarmi verso il centro in cerca di un ristorantino dove potermi finalmente sedere, ordinare un centrifugato di frutta e poi la cena a base di riso. Qui tutti i locali non sono altro che dehors più o meno ampi dove si affaccendano camerieri assai solerti a mostrarti il menù delle specialità, e che spesso ospitano una piccola band che suona live per gli avventori. Mentre passo di fronte a uno di essi, in una via laterale della vecchia capitale, vedo due ragazze americane che mi salutano; le avevo incontrate alcuni giorni prima nella escursione da Bangkok ad Ayutthaya e avevamo scambiato qualche parola ma in questi paesi i turisti occidentali finiscono per fare più o meno lo stesso itinerario e tendono a sentirsi parte di una comunità sovranazionale che condivide la curiosità, l’apertura alle culture degli altri popoli e che sogna un mondo dove tutti possano viaggiare senza divieti e frontiere chiuse.
Mi fermo con loro a cena per poi riprendere il mio cammino solitario verso il mio albergo al di fuori dalle mura della città, ripassando nuovamente acanto al fiume Ping e poi poco prima di mezzanotte, al mercato ortofrutticolo ancora in piena attività per accontentare i clienti che fanno rifornimento delle merci che subito dopo l’alba, offriranno ai viandanti.
Un ultimo sguardo alla luna calante alta nel cielo dominato da un Giove splendente e da Marte appena levatosi all’orizzonte e mi ritiro nella mia stanza l’albergo non senza aver prima controllato i passi della giornata: oltre 31.800